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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

Elena Ceste, Buoninconti condannato a 30 anni per il suo "disegno criminoso perverso"

L'uomo, scrivono i giudici d'appello nelle motivazioni, "ha insinuato sospetti su di una persona che ben sapeva essere innocente", cioè il presunto amante della moglie, ed è poi caduto in "clamorose contraddizioni"

E' stato un "disegno criminoso perverso" quello di Michele Buoninconti, condannato a trent'anni per l'omicidio della moglie Elena Ceste, uccisa il 24 gennaio 2014. Lo scrive la Corte d’Assise d’Appello di Torino nelle motivazioni della sentenza che lo scorso febbraio ha confermato la condanna in primo grado. Sul fatto che sia stato il marito ad ucciderla, i giudici non hanno dubbi.

Non solo: “Ha insinuato sospetti su di una persona che ben sapeva essere innocente”, ovvero il presunto amante della moglie, “ha tradito la fiducia dei figli, dei parenti e degli amici”. Infine ha occultato il cadavere con “modalità studiate e meditate” per impedirne il ritrovamento. Nelle 53 pagine di motivazioni, fitte di particolari che ricostruiscono le indagini avviate subito dopo la scomparsa di Elena Ceste, i giudici indicano anche un movente: la convinzione di un tradimento. Ma soprattutto è la personalità di Buoninconti a finire sotto accusa: “Padre-padrone in famiglia e individuo che ha sempre mostrato la necessità di avere tutto sotto controllo”.

A incastrare l’uomo sarebbero state inoltre “clamorose contraddizioni”, in particolare sul ritrovamento degli indumenti della vittima. Abiti che di volta in volta nel racconto dell’uomo – scrivono i giudici – cambiavano tempo, luogo, tipologia. A ciò va aggiunto l’assoluto “disinteresse ad un esito positivo delle ricerche”. “Tanto non la troverete mai”, ha infatti sempre detto l’uomo. Oltre alle “espressioni ciniche, sprezzanti che usava riferendosi alla moglie”. L’imputato sarebbe più volte caduto in “incongruenze, contraddizioni e falsità” che – secondo i giudici di secondo grado – liquidano ogni ipotesi alternativa all’omicidio.

“Elena Ceste non si suicidò, né fu vittima di morte accidentale”, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza. A provarlo, tra gli altri indizi pesanti, i riscontri delle celle telefoniche. 
 

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