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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

"Senza olio di palma si può": uscire dalla filiera sporca grazie al cittadino informato

Criticità e alternative dell'olio di palma al centro del convegno organizzato dai parlamentari 5stelle con esperti del settore. Tre aziende italiane dimostrano che non solo è possibile ma conviene dire addio all'olio tropicale

GLI EFFETTI SULLA SALUTE - Nel 2016 l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha pubblicato un parere su contaminanti da processo a base di glicerolo presenti nell’olio di palma, ma anche in altri oli vegetali, nelle margarine e in alcuni prodotti alimentari trasformati. Tali sostanze si formano durante le lavorazioni alimentari, in particolare quando gli oli vegetali vengono raffinati ad alte temperature (al di sopra dei 200° C). In estrema sintesi, come presentato al convegno da Alberto Mantovani, dirigente dell’Istituto Superiore di Sanità ed esperto dell’EFVSA, i glicidil esteri (GE) degli acidi grassi sono identificati come mutageni e cancerogeni e, considerando i livelli presenti negli alimenti, costituiscono un potenziale problema sanitario, soprattutto per i bambini. Fortunatamente i livelli di GE negli oli e grassi di palma si sono dimezzati tra il 2010 e il 2015, grazie a misure adottate volontariamente dai produttori ma, sottolinea Mantovani, occorre continuare su questa strada per ridurre ulteriormente i rischi per la salute. 

COSA C’E’ IN QUELLO CHE MANGIAMO - Una recente campagna di Amnesty International mostra una bambina che mangia una tazza di cereali, che vengono poi idealmente collegati a “esposizione di sostanze tossiche, sfruttamento, lavoro minorile, lavori forzati, discriminazione contro le lavoratrici". La onlus è in prima linea per denunciare la violazione dei diritti umani che avviene in paesi come l’Indonesia dove si trovano massive coltivazioni di palma da olio.

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Lo scorso novembre Amnesty ha pubblicato anche un rapporto intitolato “Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti”, un’indagine sulle piantagioni del colosso dell’agro-business indonesiano Wilmar, fornitore di nove grandi aziende mondiali produttrici di alimenti, cosmetici e altri beni di uso quotidiano contenenti olio da palma: otto di questi fanno parte del Tavolo sull’olio di palma sostenibile (RSPO) e sui loro siti e sulle tabelle nutrizionali dichiarano di usare “olio di palma sostenibile”. Nessuna di loro ha mai smentito l’esistenza di violazioni, ma non hanno fornito alcun esempio di azioni intraprese. Un problema, quello della “filiera sporca” ricordato anche da Fabio Ciconte, direttore di “Terra! Onlus” e portavoce proprio della campagna “Filiera sporca” per la trasparenza delle filiere agroalimentari dalla Grande distribuzione organizzata alle multinazionali, attraverso l’introduzione di una etichetta narrante e l’elenco pubblico dei fornitori. Quello che succede dall’altra parte del mondo, in Indonesia ma anche in Sudamerica, non è diverso da ciò che vediamo in casa nostra, a Rosarno o nell’agro pontino, ha sottolineato Ciconte. 

Olio di palma in Indonesia | ANSA

UN PATRIMONIO DELL'UMANITA' PERSO PER SEMPRE - Ma la battaglia sull’olio di palma non è fatta solo di numeri, che alla lunga stancano e confondo la gente e non colpiscono al cuore. Colpiscono invece le immagini mostrate al convegno dall’antropologo Dario Novellino sulla sua esperienza a fianco delle popolazioni indigene di Indonesia e Borneo, che hanno perso il diritto al loro territorio e con loro sono morte conoscenze e cultura millenarie. Novellino ha puntato il dito contro le molte compagnie della palma da olio che cercano di acquisire le certificazioni RSPO (ritenute da molti insufficienti) per poter aumentare il loro accesso al mercato europeo e statunitense, come pure quelle del POIG (Palm Oil Innovation Group), i due grandi gruppi impegnati nel settore. 

“Cerco di immaginare quale sarebbe la reazione del governo se qualcuno di noi decidesse di andare nelle loro città a saccheggiare i negozi e i supermercati, a privarli delle loro fonti di sussistenza. Che cosa farebbero? (…) La nostra foresta è come i loro supermercati, ci sono tutti i tipo di alimenti e i mezzi per procacciarseli; ma loro ci stanno rubando tutto questo” (lettera di Tama Ating, indigeno Penan a Dario Novellino)

Ma come ricorda il documentario "Frontera invisibile", proiettato in anteprima nazionale durante il convegno, l'Italia con il 95% nel 2015 è inoltre il principale produttore di biodiesel tratto dall’olio di palma, entrando a gamba tesa in un business che continua a distruggere interi habitat naturali e popolazioni indigene.

La palma da olio è la pianta simbolo della cultura massiva a scopo industriale, ha spiegato invece il grillino Carlo Martelli durante il suo intervento, sottolineando il rischio per tutto il pianeta rappresentato dalla perdita della bio e micro diversità e soprattutto il ruolo fondamentale del cittadino informato. L’obiettivo, affermano i parlamentari del Movimento 5 stelle, è “riconvertire le filiere produttive sostituendo l’olio di palma con altri olii vegetali (semi, girasole, d’oliva ecc.), più sostenibili per salute, ambiente e  diritti umani”. Si tratta di un “progetto reale, già al centro di una proposta di legge e diversi atti parlamentari del M5S, che oggi riceve un nuovo impulso proprio dalle imprese ‘palm free’, che ci dimostrano come trovare un’alternativa all’olio tropicale non solo è possibile ma conviene, al proprio fatturato e ai consumatori”. E’ il caso alcune aziende italiane, tre esempi diversi uniti però da un unico ideale: Coop, Alce Nero e Di Leo. 

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