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Sabato, 2 Dicembre 2023
Cronaca Trieste

Parlare male del capo su WhatsApp non può portare al licenziamento

La Cassazione ha respinto il ricorso di una società di vigilanza privata, che aveva licenziato un dipendente dopo aver scoperto alcuni contestazioni in cui venivano criticati aspramente i superiori. Secondo i giudici il fatto "non ha rilievo disciplinare"

Sparlare di un superiore o del proprio datore di lavoro in una chat estranea all'ambiente lavorativo "non ha rilievo disciplinare" e non può costare il posto al dipendente. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, con una sentenza della sezione lavoro, in merito ad un caso di licenziamento "per giusta causa" risalente al 2017. Protagonista della vicenda il comandante delle guardie giurate di Udine, dipendente di una società di vigilanza privata, la Italpol Spa, che in una chat su WhatsApp con un ex collega ne aveva dette di tutti colori nei confronti del suo capo. Tutte le tracce delle conversazioni erano rimaste nel pc dell'ufficio e, una volta emerse, avevano portato al licenziamento del dipendente, accusato anche di non aver denunciato un'aggressione subita da una guardia giurata su un autobus e di aver omesso di segnalare per cinque mesi alla questura di Udine i turni di servizio. La Suprema Corte ha deciso che parlare male, "anche con giudizi pesanti e lesivi, del presidente e degli amministratori delegati della società per cui si lavora non è una condotta in sè idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede. Il dipendente che esprime valutazioni negative e dal contenuto discutibile" sul gotha aziendale non incorre dunque in sanzioni disciplinari, né tanto meno perde il posto".

Già in primo grado la conversazione era stata ritenuta "priva di rilievo disciplinare", ma la società non si è arresa ricorrendo alla Cassazione, dove però i giudici non hanno avuto nulla da aggiungere alla decisione della Corte d'appello di Trieste, stabilendo che "tali dichiarazioni dovevano essere valutate specificamente nel contesto in cui erano state pronunciate, vale a dire in una conversazione extralavorativa e del tutto privata senza alcun contatto diretto con altri colleghi di lavoro. Anche sotto il profilo soggettivo le stesse espressioni erano circoscritte a un ambito totalmente estraneo all'ambiente di lavoro". Anche lo strumento utilizzato, in questo caso l'applicazione di messaggistica WhatsApp, per la Cassazione rimane "irrilevante":  "Premesso che non integra una condotta in sè idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto l'aver espresso in una conversazione privata e fra privati, giudizi e valutazioni, seppur di contenuto discutibile, ove, come nel caso in esame, sia stato escluso il fatto che tali dichiarazioni fossero anche solo ipoteticamente finalizzate a una ulteriore diffusione, resta irrilevante lo strumento di comunicazione utilizzato". I giudici hanno infine accolto il ricorso del comandante, che aveva perso il posto di lavoro e il diritto ad alcune mensilità a causa delle altre due contestazioni.

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