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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Pubblico chiude dopo soli tre mesi di vita, i redattori: "E' stato un giornalicidio"

In un lungo post-articolo l'assemblea della redazione del quotidiano ideato e pubblicato da Luca Telese attacca: "La nostra è la storia di un disastro imprenditoriale".

Cronaca surreale di un giornalicidio. Inizia così lo scritto, a metà strada tra un articolo e uno sfogo da social network, con il quale l'assemblea dei redattori di Pubblico annuncia la chiusura del quotidiano di cui Luca Telese è al tempo stesso editore e direttore.

E sono proprio loro, i lavoratori di Pubblico, giornale il cui slogan è (stato) "Dalla parte degli ultimi e dei primi", a chiedersi: com'è possibile che un quotidiano chiuda dopo soli tre mesi di vita?

Ma in un mercato, come quello italiano, povero di editori puri accade che un nuovo prodotto editoriale possa nascere con appena 748 mila euro di capitale per rimanere in edicola appena tre mesi.

Era il 18 settembre quando, "senza alcuna campagna pubblicitaria" - denunciano i redattori - Pubblico sbarcava in edicola.

Molti i passaggi televisivi di Luca Telese, soprattutti negli studi di La7 e Sky. Poche, invece, le iniziative pubblicitarie per portare la gente ad acquistare il giornale nato da una sorta di scissione interna al Fatto Quotidiano. 

E così, "senza pagare i collaboratori" come hanno denunciato diversi giornalisti, Pubblico saluta e dal primo gennaio non sarà più in edicola. Il "giornalicidio" è compiuto.

Ma, leggendo quanto scritto da chi per Pubblico (ha) lavora(to) emerge come questo "disastro imprenditoriale" era in qualche modo annunciato. 

Diversi i motivi che hanno portato al fallimento del quotidiano di Telese.

Primo il capitale sociale esangue, che non poteva certo reggere ad una programmazione economica di almeno sei mesi. Secondo, il prezzo di copertina iniziale ad un euro e mezzo, evidentemente troppo alto all’epoca della “grande crisi”. Terzo, la totale assenza di una campagna pubblicitaria che facesse conoscere il giornale ai lettori, nell’ingenua convinzione che ai tempi di internet e di twitter bastasse il tam-tam digitale per farsi strada. Quarto, la totale mancanza di un “piano B” nel caso in cui le cose fossero andate male. Qualche tentativo di correggere la rotta, appena s è visto che i conti – evidentemente – non tornavano? No.

E così i giornalisti di Pubblico si ritrovano precipitati dall'altra parte del taccuino e della tastiera: coloro che volevano raccontare la lotta per il lavoro degli altri, si trovano, oggi, a lottare per il loro lavoro. Però, senza taccuino e tastiera. 


Stavolta la lotta per i diritti minimi passa direttamente per le nostre vite e vede come controparte chi ha messo in piedi questo giornale. Perciò abbiamo deciso di non gettare la spugna e fare ancora una volta i giornalisti. La nostra vicenda, la vicenda di Pubblico crediamo che racconti molto di questo Paese. C’è di tutto, in questo racconto, dall’approssimazione alla fuga di fronte alla responsabilità, dalla resa davanti alle prime difficoltà fino all’ipocrisia squadernata ai precari che prima sono il sale dell’impresa e poi diventano un problema, perché per loro non scattano neppure gli ammortizzatori sociali.

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