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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Cronaca

Aree interne, il futuro dell'Italia passa di qui: "Politica e cultura, si può fare"

Per migliaia di comuni italiani lo spopolamento è un processo iniziato da tempo, ma le energie per ribaltare le prospettive e valorizzare le risorse ci sono. Quale sarà il futuro dell'Italia "interna"? Abbiamo intervistato Filippo Tantillo, coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato nazionale per le aree interne: "La prima cosa che colpisce, muovendosi in queste aree, non è la mancanza di servizi, ma l’incapacità da parte di chi le abita di esprimere bisogni e rivendicare diritti". Qualcosa sta cambiando: "Il tema sta tornando al centro delle riflessioni sul futuro del Paese"

Nel corso della lunga epoca "dello sviluppo locale" dal secondo dopoguerra in poi sono state stanziate spesso risorse pubbliche importanti (Cassa del Mezzogiorno, ad esempio), ma la tendenza alla marginalizzazione non si è mai arrestata: quali gli errori più lampanti commessi dalla politica nella storia dell'Italia recente? Quali gli sprechi più insensati?

Negli ultimi vent’anni, l’approccio allo sviluppo è stato urbanocentrico; tutto il futuro, ci è stato detto, è nelle città. E lo sviluppo locale, per quanto mosso da un intento di segno opposto, si è caratterizzato sempre più come una politica residuale o al massimo compensativa, che in molti casi non ha posto argine ma anzi ha favorito la devastazione del territorio; e sempre in questa logica, la costruzione di una rete infrastrutturale tra grandi poli ha tagliato fuori interi pezzi di paese (basti pensare al treno metropolitano Bologna Firenze). E da un ripensamento di questo approccio che bisogna ripartire. Per quanto riguarda gli sprechi, dipende cosa si intende. La stagione degli incentivi a pioggia per i Bed&Breakfast, ad esempio, cosa ha prodotto? Poco, sicuramente, in termini di crescita di ricettività. Dopo pochi anni, a fronte di una domanda turistica che da sola di certo non viene, gran parte dei B&B son tornati ad essere abitazioni normali. Da un altro punto di vista la “distribuzione a pioggia”, in assenza di politiche di sostegno, ha garantito che il declino delle aree interne fosse, appunto un declino, e non un tracollo. Si sarebbe potuto intervenire in maniera selettiva, assecondando le dinamiche positive emergenti. Il più delle volte le misure messe in campo le hanno affossate. Non è solo colpa della politica, lo spopolamento è un dato storico e in qualche maniera anche “fisiologico”. La crisi, e la disconoscenza delle reali condizioni sul campo e la debolezza delle amministrazioni locali e centrali ha fatto il resto.

Nell'affrontare la tendenza allo spopolamento di ampie zone è stata lampante l'assenza totale di visione e di prospettiva, ma direi anche di "cultura": l'esempio che spesso si fa è quello dell'Irpinia del 1980, quando piuttosto che ricostruire alcuni vecchi centri storici si è preferito costruire nuove città non troppo distanti, imponendo però uno sradicamento che ha avuto effetti devastanti. Che cosa ne pensi?

Non era, e non è facile intervenire in una situazione di forte frammentazione quale quella che si vive in aree interne, una frammentazione che esplode di fronte ad eventi catastrofici. Indubbiamente è la visione di un futuro possibile, quella che manca nelle classi dirigenti attuali. Gli eletti stessi sono in grande difficoltà per la quantità di conoscenze di cui avrebbero bisogno per prendere le decisioni “giuste”.  Credo che le cose stiano lentamente cambiando, nel nostro lavoro su campo registriamo il diffondersi e rafforzarsi di qualcosa che  assomiglia più ad una più marcata capacità di mettere in piedi strategie vincenti di sopravvivenza, che al dispiegarsi di visioni di sviluppo. Non sono scelte difensive, ma anche d’attacco. E’ un segnale che registriamo positivamente. Dovrebbe esser compito della politica mettere insieme queste esperienze, di sindaci che riescono a risolvere creativamente il problema del trasporto scolastico dalle frazioni, ad esempio, di privati che si legano per gestire in maniera più redditizia il bosco, di maestri che riescono a fare delle loro multiclassi esperimenti di una nuova scuola per aree interne. E’ quello che proviamo a fare con la Strategia.

Più del 30 per cento dei luoghi della cultura distribuiti sul territorio nazionale (musei, siti archeologici e storici) censiti dall’Istat ricadono in aree interne. Le biblioteche in Italia ad esempio sono 17mila, di cui quasi 5mila in aree interne. Cosa si può fare concretamente per valorizzare e modernizzare un patrimonio che già abbiamo?

Abbiamo ben chiaro dal nostro punto di vista che non esistono soluzioni o modelli preconfezionati per la gestione dei Beni culturali. Sono tutti da inventare. Per altro in tutto il mondo si registra un cambio nella domanda di cultura, c’è un progressivo spostamento dalla “fruizione” della cultura alla sua produzione. Oggi tutti vogliono scrivere, fare film, dipingere. Abbiamo molti casi in cui per mantenere in piedi un patrimonio recuperato, un palazzo baronale, una fabbrica dismessa, si ricorre al coinvolgimento degli stessi produttori di cultura, pittori, antropologi, archeologi che vengono invitati a ripensarne i contenuti, a ricreare un legame con gli abitanti del posto ecc.  Una ricetta promettente sembra essere quella di avvicinare i produttori di contenuti (che so, i dottorandi organizzati in associazione) alla gestione dei siti, perché possano continuamente rinnovare l’offerta; ma non è una soluzione che funziona dappertutto. La nostra è una strategia sperimentale, cerchiamo soluzioni sul campo, non ne offriamo, perché di fatto non ne abbiamo. Per il momento continuiamo a cercarne.  Dal mio punto di vista credo che il tema della tutela, in aree interne, debba tornare ad essere centrale, e che non possa essere confuso con quello della valorizzazione, che può avvenire solo in un secondo momento. 

Come valuti l’inserimento di piccoli gruppi di migranti nella situazione demografica e strutturale delle aree interne, può costituire una valida risorsa di crescita culturale e sociale nei piccoli paesi? O si tratta di un elemento che avrebbe un impatto non rilevante?

Credo che il tema dell’attrazione dei migranti sia essenziale, al pari di quello che riguarda i giovani. Sono le due categorie che guardano questi territori con più disincanto e con maggiore pragmatismo. Sono persone che non hanno nostalgia per un pre-crisi idialliaco al quale tornare, sono già, e dall’origine, adattati allo stato attuale. C’è un interesse reciproco e indiscutibile nell’incontrarsi su questi territori. Inoltre, dalle nostre analisi emerge chiaramente come i migranti rappresentino il gruppo con maggiore propensione all’imprenditorialità, che è quasi doppia rispetto a quella degli italiani. 

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