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Redazione

Quarant’anni fa il referendum in difesa dell’aborto in Italia: ma la legge 194 continua ad essere sotto attacco

Quarant'anni fa gli italiani votarono per difendere la legge 194. Una legge all'epoca ancora giovane, entrata in vigore appena pochi anni prima e frutto di un'aspra battaglia sociale, politica ed etica, che aveva depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all'aborto, ora libero, protetto e gratuito all'interno delle strutture pubbliche.

Tra 17 e 18 maggio 1981 gli italiani furono chiamati a dire la loro su cinque referendum abrogativi, due relativi proprio all'aborto. Uno era stato proposto dal neonato Movimento per la Vita e proponeva alcune riforme della legge per consentire solo l'aborto terapeutico (un altro quesito "massimale" proposto dall'associazione e che chiedeva l'abrogazione totale della 194 era stato respinto dalla Corte Costituzionale). L'altro invece arrivava dai Radicali, che proponevano l'abrogazione di alcune norme della 194 per una totale liberalizzazione dell'aborto, per aprirlo anche alle minorenni, consentire alle donne di farvi ricorso anche dopo i primi 90 giorni di gestazione ed estenderlo anche alle case di cura private. Alle urne si arrivò dopo mesi di dibattiti molto accesi, manifestazioni e contromanifestazioni, prese di posizione e scontri. Entrambi i quesiti furono bocciati: l'88% votò no a quello dei Radicali e i 68% respinse quello del Movimento per la Vita.

Gli italiani scelsero quindi di conservare la legge 194 nella sua forma originaria, così come era stata votata e approvata dal Parlamento il 22 maggio 1978. Non potendo modificarla, da allora si è provato più volte a metterle i bastoni fra le ruote. Uno dei modi più comuni per farlo e minare il diritto delle donne all'autodeterminazione è tentare di rendere il più difficile la sua applicazione. Come i recenti tentativi di limitare l'accesso all'aborto farmacologico da parte di alcune Regioni (Umbria, Marche e Abruzzo), guidate da esponenti di centrodestra. Per non parlare poi del caso dell'obiezione di coscienza. L'ultima indagine del Sistema di Sorveglianza dell'Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), relativa ai dati nel 2018, ha confermato ancora l'alta percentuale di ginecologi e obiettori sul territorio nazionale: il 69% dei primi e il 46,3% dei secondi. Il prossimo 28 maggio in Molise andrà in pensione l'unico dirigente medico ginecologo non obiettore all'interno delle strutture dell'Asrem, l'azienda sanitaria regionale. Appena pochi mesi fa il comitato della carta sociale europea, organo del Consiglio d’Europa, è tornato a bacchettare l'Italia perché ancora oggi abortire è troppo difficile, a causa del numero dei ginecologi obiettori in aumento, la carenza di personale specializzato e la disparità di accesso a livello locale e regionale, mentre "il governo non ha fornito alcuna informazione sul numero o percentuale di domande d’aborto che non hanno potuto essere soddisfatte in un determinato ospedale o regione a causa del numero insufficiente di medici non obiettori".

E mentre ricorre l'anniversario di quei referendum (ai quali votò il 79% degli aventi diritto), fa discutere la proposta di legge depositata al Consiglio regionale in Liguria (a guida del centrodestra) da tre consiglieri di Fratelli d'Italia (Stefano Balleari, Sauro Manucci e Veronica Russo) per concedere all'interno dei consultori e negli ospedali dove vengono praticate le interruzioni di gravidanza sportelli informativi gratuiti per le associazioni antiabortiste. Una proposta contro cui si sono fatte sentire opposizioni, sindacati e associazioni, che chiedono invece di rafforzare la legge che già esiste. Quarant'anni dopo quel verdetto, siglato - è bene ricordarlo - non solo dalle donne ma anche da tanti uomini, si continua a lavorare ai fianchi della legge 194. 

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