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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Il New York Times accusa il Made in Italy: "Le sarte italiane sfruttate come in Cina”

Il quotidiano americano pubblica un discusso reportage sul lavoro delle sarte del sud Italia, ma la categoria si difende: "Ci attaccano perché siamo bravissimi”

Un’accusa gravissima quella che l’inchiesta del New York Times dal titolo Inside Italy's Shadow Economy (“Dentro le ombre dell'economia italiana”) ha lanciato contro la moda italiana e, in particolare, contro alcuni dei brand prestigiosi che ne hanno reso importante la fama in tutto il mondo.

“Migliaia di lavoratrici sottopagate creano indumenti di lusso senza contratto o assicurazione”, si legge nell’articolo delle reporter Elizabeth Paton e Milena Lazazzera  secondo cui diverse grandi aziende sfruttano il lavoro nero, pagando le sarte un euro all'ora, in Puglia.

L'attacco, non a caso, arriva mentre a Milano è in corso la seconda giornata della Fashion Week. Alcune delle grandi griffe italiane "producono lavoro nero in Puglia", pagando le sarte "1 euro l'ora" per confezionare cappotti e abiti che poi finiranno nei negozi "a 2.000 euro" tuona il New York Times.

La Puglia come il Bangladesh o la Cina, insomma.

Carlo Capasa annuncia di adire le vie legali

Il quotidiano statunitense che mette sotto accusa la moda italiana, non usa mezzi termini e racconta di una zona d'ombra fatta di lavoratrici in nero, prive di garanzie o assicurazioni e che percepiscono retribuzioni da fame.

Mentre da Milano, il presidente della Camera della moda, Carlo Capasa, annuncia di adire le vie legali definendo l’inchiesta "un attacco vergognoso e strumentale". "Hanno attaccato questi marchi in maniera indegna - dice Capasa - per questo prepareremo una nota congiunta insieme agli avvocati". "Se hanno trovato un reato c'è obbligo di denuncia, perché non l'hanno fatto?" si chiede Capasa, per il quale "i nostri contratti sono tutti a tutela dei lavoratori".

Secondo Capasa, c'è un motivo per cui questo articolo è uscito oggi: "A Milano inizia la fashion Week con il green carpet, siamo bravi e questo dà fastidio".

Il NYT contro il Made in Italy: l'inchiesta 

L’inchiesta si apre con le parole di una sarta di Santeramo in Colle, un paesino in provincia di Bari, che parla delle proprie condizioni di lavoro.

Seduta al tavolo della sua cucina, la donna che ha chiesto l'anonimato "sta cucendo con cura un sofisticato cappotto di lana, il genere di capo che si venderà dagli 800 ai 2.000 euro quando arriverà nei negozi", scrive il Nyt.

Fa parte della collezione autunno-inverno di uno dei principali brand italiani. La sarta, prosegue il giornale, "riceve solo 1 euro dalla fabbrica che la impiega per ogni metro di tessuto che completa".

"Mi ci vuole circa un'ora per cucire un metro - dice la donna - quindi circa quattro o cinque ore per completare un cappotto intero".

Stando a quanto riferito al Nyt, la sarta "lavora senza contratto o assicurazione, e viene pagata in contanti su base mensile". Il lavoro le viene affidato da una fabbrica locale che produce capispalla per alcuni dei nomi più blasonati nel settore del lusso. Colossi del sistema moda. Il massimo che abbia mai guadagnato, spiega, è stato 24 euro per realizzare un cappotto intero.

"Il lavoro a domicilio, che consiste nel lavorare da casa o in un piccolo laboratorio anziché in fabbrica, - spiega il quotidiano americano - è una pietra miliare della catena di distribuzione del fast-fashion. È particolarmente diffuso in Paesi come l'India, il Bangladesh, il Vietnam e la Cina, dove milioni di persone, prevalentemente donne, sono tra i lavoratori meno tutelati del settore".

Le giornaliste spiegano che in Italia le lavoratrici non possono essere paragonate alla manodopera sfruttata in questi Paesi ma che i loro salari ci si avvicinano. "L'Italia non ha un salario minimo nazionale - scrive il quotidiano - ma circa 5-7 euro all'ora è considerato uno standard appropriato da molti sindacati e società di consulenza. In casi estremamente rari, un lavoratore altamente qualificato può guadagnare fino a 8-10 euro l'ora".

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