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Martedì, 23 Aprile 2024
gli scenari

Lo stop a diesel e benzina è davvero un rischio per l’auto italiana?

Quasi 70mila posti di lavoro in meno entro il 2030, secondo le organizzazioni di settore. Ma c'è chi contesta queste cifre e rilancia: più occupati con la transizione

Il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo al divieto di vendita nel mercato Ue di auto a benzina e diesel. E come già successo in passato, in Italia è partita la levata di scudi contro l'Europa cattiva che, nel nome dell'ideologia ecologista, distrugge la nostra industria, lascerà decine di migliaia di persone senza occupazione, e impedirà alle famiglie più povere di avere uno o più mezzi a quattro ruote per spostarsi e lavorare. La fine del motore a combustione per auto e furgoncini entro il 2035, comporterà, secondo le organizzazioni di categoria, la perdita di 67mila posti di lavoro in Italia entro i prossimi sette anni. Quasi 10mila disoccupati in più all'anno, in media. Un numero che potrebbe aumentare se la stretta sui carburanti fossili riguarderà anche i bus e i camion, per i quali Bruxelles ha proposto un piano di transizione green con orizzonte il 2040. Per alcuni esperti, il nostro Paese è il più esposto alla svolta dell'auto a emissioni zero, anche più di Germania e Francia. Mentre la Cina, forte del suo dominio nella produzione di batterie elettriche, potrebbe dominare il mercato nel prossimo futuro. Ma le cose stanno realmente così?

Lo stato dell'automotive in Italia

Procediamo per punti. Innanzitutto, va detto che la crisi del settore auto italiano parte da lontano, e non certo per colpa dell'elettrico: se a fine anni '80 producevamo quasi 2 milioni di vetture all'anno, nel 2009 il numero era calato a poco più di 660mila unità. Nel 2021, la quota è ulteriormente scesa a 442mila. Nel frattempo, la Fiat (o Fca) è passata di fatto sotto il controllo dei francesi del gruppo Peugeot-Citroen, dando vita a Stellantis: cervello in Francia, sedi fiscali in Olanda e Lussemburgo (già con Fca), sei stabilimenti e circa 66mila dipendenti in Italia. Il governo ha promesso a Stellantis 8,2 miliardi da qui al 2030 affinché mantenga produzione e occupazione. La compagnia ha risposto annunciando piani per l'auto elettrica, ma i sindacati (e lo stesso governo) nutrono più di un dubbio sull'effettiva portata di questo impegno.

Il problema centrale per la nostra industria automobilistica è però rappresentata dal comparto che più ha retto alla progressiva crisi di produzione interna, ossia quello della componentistica. Imprese come Brembo e Marelli hanno progressivamente compensato la perdita di ordini italiani con una crescita dell'export, e oggi una big come la Germania non potrebbe fare a meno di freni e elettronica made in Italy. Stando a un'indagine risalente all'inizio del 2022, curata dal ministero dello Sviluppo economico con il supporto delle associazioni di categoria, la componentistica italiana contempla 2.200 imprese, con 161mila dipendenti e un fatturato da 45 miliardi.

Di queste, sempre secondo il rapporto, 101 sono quelle considerate più a rischio con la transizione all'elettrico: si occupano di componenti per le auto a benzina e diesel, e danno lavoro a 26mila addetti. Altre 800 aziende, con circa 54mila dipendenti, il cui business è legato alla specializzazione sul motore a combustione, sono considerate a rischio moderato. Solo 40 aziende, scrive il ministero, sono pronte alla transizione grazie alle loro specializzazioni che vanno dall’analisi dei dati alla guida autonoma, dai motori elettrici alle batterie. C'è poi da considerare tutto l'indotto legato a benzina e diesel, dalle stazioni di rifornimento ai trasporti.

Più posti di lavoro?

Visto così, l'impatto del passaggio all'elettrico potrebbe essere davvero devastante per il nostro Paese. Ma non tutti concordano con questa visione. Uno studio di Motus-E e Cami, centro di ricerca dell'Università di Venezia Ca' Foscari, sostiene che l'elettrificazione dei trasporti in Italia non creerebbe deindustrializzazione e disoccupazione, ma porterebbe anzi a un aumento del 6% dei posti di lavoro nel comparto della componentistica da qui al 2030. A cui aggiungere altri 7mila nuovi occupati per il comparto infrastrutture e energia al servizio della mobilità elettrica (si pensi alle colonnine di ricarica, per esempio). L'analisi di Motus-E e Cami parte da una ricognizione meno pessimistica sulla preparazione delle aziende italiane alla transizione: le imprese che già operano sull'elettrico sarebbero 107, e non 40 come rilevato dal rapporto del governo. Quelle più a rischio occuperebbero invece 14mila addetti, quasi la metà di quelli citati dallo studio del ministero. 

Altro elemento positivo: "Sono in costante aumento (...) le iniziative manifatturiere collaterali che possono contribuire in modo particolarmente rilevante alla creazione di nuovi posti di lavoro" e ridurre la "dipendenza dalle forniture extra Ue", come quelle specializzate nelle le batterie, che, in base agli investimenti attualmente previsti, potrebbero creare "4.000 nuovi posti di lavoro diretti", scrivono Motus-E e Cami. Ci sono le altre filiere collegate, come quelle degli accumulatori e del riciclo, "attività quest’ultima in cui l’Italia vanta un’esperienza tale da poter ambire a un ruolo di leadership internazionale". 

Le conclusioni di questo studio sono dunque più ottimistiche. Altro elemento da considerare, poi, sono le deroghe previste dalla direttiva Ue sui motori a benzina e diesel: la prima riguarda le auto di lusso, comparto importante per l'Italia (si pensi alla Ferrari) che potranno avere più tempo per adeguarsi all'elettrico. Seconda deroga, non meno importante, riguarda i biocarburanti: la legge europea ha lasciato la porta aperta all'idrogeno e a questo tipo di combustibili, che potrebbero "salvare" la tecnologia del motore a combustione. Come? Nella direttiva è stato inserito un freno d'emergenza: se la transizione comporterà gravi conseguenze sotto il profilo socioeconomico (licenziamenti di massa e prezzi auto inaccessibili per la fascia più povera della popolazione), la Commissione Ue potrebbe decidere, sulla base di valutazioni biennali, di rivedere le norme, e consentire (almeno questa è la speranza espressa dall'ex ministro Roberto Cingolani) una deroga per i veicoli alimentati con biocarburanti, considerati decisamente meno inquinanti di diesel e benzina. E qui per l'Italia potrebbe aprirsi un nuovo, interessante mercato.

Il nodo investimenti

Ma tra il dire e il fare, ci sono di mezzo gli investimenti. Se nei grandi Paesi produttori di auto (Usa, Germania e Francia per esempio) i profeti di sventura sono meno ascoltati, il motivo è soprattutto perché c'è più fiducia nella possibilità di sfruttare a proprio vantaggio la transizione. Gli Stati Uniti hanno messo in campo un maxi piano di incentivi (l'Inflaction reduction act), che verserà centinaia di miliardi di euro non solo per la produzione, ma anche per l'acquisto di auto elettriche con componenti e batterie made in America (non solo Usa, ma anche Canada e Messico). L'Europa ha risposto eliminando le strettoie sugli aiuti di Stato, il che libererà soprattutto gli investimenti di Germania e Francia, che hanno le casse e i conti in regola per farlo. Era già successo con la pandemia, con il risultato che su 540 miliardi di sussidi autorizzati nell'Ue a fine 2022, la metà provenivano da Berlino, e un altro 30% da Parigi.

Le imprese italiane si sono dovute invece accontentare del 5%. E sta proprio qui la grande preoccupazione per la nostra industria: per fare della transizione elettrica (e più in generale, energetica e digitale) una storia di successo, servono investimenti, e tanti. Scontiamo anni di ritardi in tal senso, vuoi per la mnacanza di lungimiranza della nostra classe dirigente , vuoi perché l'alto debito pubblico ha tarpato le ali. Oggi, l'Italia può contare sul Pnrr, ma potrebbe non bastare per diverse ragioni. Ecco perché, con lo scoppio della guerra in Ucraina e l'impennata dell'inflazione, tanto il governo Draghi, quanto quello Meloni hanno sollevato a Bruxelles la necessità di creare un nuovo fondo comune europeo per indirizzare risorse laddove latitano. Per il momento, però, l'opposizione dei falchi dell'austerity (Olanda e Germania in primis) ha bloccato la discussione. La Commissione europea ha annunciato l'intento di creare un fondo di sovranità da agganciare al suo piano per la promozione dell'industria green. Ma a oggi, sembra più una scatola vuota.   

  

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