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Mercoledì, 24 Aprile 2024
LAVORO

I fattorini di Foodora? Non sono dipendenti: i riders perdono la causa contro l'azienda

Sei fattorini di Torino aveva portato la multinazionale in Tribunale dopo l'interruzione del rapporto di lavoro. Ma i giudici hanno respinto il ricorso

Niente da fare per i riders di Foodora, il colosso delle consegne di cibo a domicilio in bicicletta. La multinazionale tedesca era stata citata in giudizio da sei ex riders di Torino che contestavano l'interruzione improvvisa del rapporto di lavoro, giunta dopo le proteste di piazza per le questioni relative alla paga oraria e, contestualmente, chiedevano risarcimento e assunzione. Ma secondo il Tribunale ha ragione l’azienda: i sei fattorini non possono essere considerati dipendenti effettivi, ma 'solo' collaboratori autonomi e dunque non legati da un rapporto di lavoro subordinato con l’azienda.  

I legali avevano chiesto un risarcimento di 20mila euro per ciascuno lavoratore per la violazione delle legge della privacy e cento euro al giorno per il mancato rispetto delle norme antinfortunistiche.

"Movimenti costantemente monitorati"

Secondo uno degli avvocati dei sei fattorini, "i rider avevano un contratto Co.co.co e quindi l'azienda non era obbligata a farli lavorare - aggiunge il legale - ma in pratica venivano trattati come lavoratori dipendenti. Basti pensare che i loro movimenti erano costantemente monitorati, c'era un assoluto controllo gerarchico".

I rapporti tra i riders e l’azienda si incrinarono definitivamente dopo che alcuni fattorini scioperarono per chiedere un aumento della paga oraria. "L’azienda escluse dai turni chi non era d’accordo – ha spiegato al Corriere della Sera il legale Giulia Duretta - addirittura un rider ha raccontato che in cambio di notizie sui colleghi, avrebbe avuto un contratto".

La versione dell'azienda

Ma secondo i giudici –che hanno dato ragione all’azienda – il rapporto di subordinazione nei fatti non esisteva. Secondo l’avvocato di Foodora, peraltro, non può parlare in alcun modo di violazione della privacy in quanto “l’applicazione utilizzata sullo smartphone poteva accedere, attraverso il gps, soltanto al dato sulla geolocalizzazione, istantaneo e non memorizzato”.

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