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Sabato, 20 Aprile 2024
Amara realtà

Il lavoro al Sud è fermo agli anni '90

L'analisi dell'Ufficio Studi della Confcommercio

L'occupazione è cresciuta quattro volte meno in 25 anni. E rispetto al 1995 mancano al Sud oltre 1,6 milioni di giovani. Cosa fare per ridurre i divari territoriali? "Rilancio dell'economia, grazie ai vaccini, e piano nazionale di ripresa sono un'opportunità irripetibile per il nostro Mezzogiorno. In particolare, le risorse del Pnrr destinate al Sud, circa 82 miliardi, permettono di sviluppare e innovare le infrastrutture di quest'area. E migliori infrastrutture significano anche migliore offerta turistica che è la straordinaria risorsa del meridione". Così il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, commenta l'analisi dell'Ufficio Studi della Confederazione su economia e occupazione al Sud dal 1995 ad oggi.

Per il calo del peso del prodotto lordo del Sud, spiega l'analisi, le ragioni sono molteplici, ma le principali sono due: la decrescente produttività totale dei fattori, conseguenza dei gap di contesto che affliggono le economie delle regioni meridionali in particolare, e la riduzione degli occupati, conseguenza della riduzione della popolazione residente. Burocrazia, nella micro-illegalità diffusa, accessibilità insufficiente e minore qualità del capitale umano sono le spiegazioni di un fenomeno strutturale che comprime il prodotto pro capite in modo permanente. Se nel Sud questi difetti fossero ridotti in modo tale da portarne le dotazioni ai livelli osservati nelle migliori regioni italiane, il prodotto lordo meridionale crescerebbe di oltre il 20% alla fine dell'aggiustamento di lungo periodo, rispetto a uno scenario senza interventi.

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La questione dell'occupazione, collegata alla popolazione residente, è altrettanto importante, sottolinea Confcommercio. Il tema della produttività, quello delle condizioni economiche e sociali di vita e, infine, quello della scelta di risiedere o piuttosto di emigrare, sono strettamente collegati. Si riduce il peso del Sud in termini di popolazione (dal 36,3% al 33,8%) e ben più grave è la questione della popolazione giovane. L'Italia nel complesso perde 1,4 milioni di giovani nel periodo considerato: da poco più di 11 milioni a poco meno di 10 milioni. Tutta questa perdita è dovuta ai giovani meridionali. Mentre nelle altre ripartizioni il livello assoluto e anche la quota di giovani rispetto alla popolazione di qualsiasi età restano più o meno costanti, nel Mezzogiorno si registra un crollo: rispetto al 1995, mancano nel Sud oltre 1,6 milioni di giovani.

La prima fonte della crescita ha radici nella dinamica della demografia. Le condizioni e le prospettive di vita e di lavoro del nostro Sud disincentivano le scelte delle donne in termini di partecipazione al mercato del lavoro, ne riducono le scelte di maternità, incoraggiano sistematicamente l'emigrazione dei giovani meridionali verso altre regioni. La popolazione italiana complessiva è in riduzione dal 2015, proseguendo il suo calo anche nel 2020. Queste dinamiche sono completamente ed esclusivamente determinate dalla demografia del Mezzogiorno. Le prospettive non sono certo di miglioramento.

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Sul piano dei flussi interni, mentre fino agli anni novanta l'emigrazione da Sud a Nord allargava la base produttiva delle regioni italiane più ricche e produttive, oggi dal Nord stesso si emigra verso altri Paesi. Al di là del più elevato tasso di disoccupazione del Mezzogiorno e dei più bassi tassi di partecipazione, soprattutto femminile, al mercato del lavoro, emerge tutta la fragilità dell'economia delle regioni del Sud semplicemente dalla lettura della variazione degli occupati totali: a fronte di una crescita del 16,4% delle unità standard di lavoro per l'Italia, nei quasi cinque lustri considerati, l'occupazione del Sud cresce di poco più di quattro punti.

È inesorabilmente stretta la correlazione con le dinamiche demografiche, il che, sottolinea Confcommercio, ha delle implicazioni molto rilevanti in termini di politiche. Incentivi all'occupazione meridionale, decontribuzioni e regimi di favore avranno progressivamente minore efficacia a fronte di un bacino di occupati potenziali che si restringe per cause più profonde di demografia e di contesto sociale e produttivo.

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Le radici del declino hanno natura strutturale e origini lontane nel tempo. Prima della crisi economico-finanziaria della seconda parte degli anni duemila, il Sud cresceva a scartamento ridotto rispetto al resto del Paese, palesando, secondo la metrica della variazione del Pil reale, uno scarto di tre decimi di punto annui rispetto alla media Italia nel periodo 1996-2007 (1,2% contro 1,5% del totale Italia). Questo scarto raddoppia, a sfavore del Sud, nel periodo 2008-2019, passando a sei decimi di punto (-0,9% contro una riduzione media dello 0,3% all'anno). Nel 2020, sulla base della stima preliminare dell'Istat, la crisi ha colpito meno il Sud rispetto al Centro-Nord che ha subito in misura più rilevante il blocco delle attività produttive durante la pandemia. È abbastanza evidente che, spiega l'analisi, in prospettiva futura, i maggiori timori per il dopo-pandemia si addensano sul pericolo di tornare a crescere agli insufficienti tassi del passato recente e, ormai, anche meno recente.

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Giusto, dunque, che nel dibattito pubblico sul Mezzogiorno d'Italia, anche nel contesto di Next Generation EU, l'attenzione sia tutta rivolta a un auspicato processo di riforme che mirano, in generale, a una migliore utilizzazione del capitale produttivo e umano, oltre che a un incremento delle dotazioni quantitative e qualitative dei medesimi. Il collegamento al turismo, sede e pilastro del vantaggio comparato meridionale, è inevitabile. Questo vantaggio è, tuttavia, più nella sensibilità e nella speranza di molti italiani e della maggior parte degli esperti, piuttosto che nei dati. Nel 2019, un anno "normale", alcune regioni meridionali non hanno partecipato al processo di costruzione di ricchezza attraverso il turismo e nel 2020 la crisi generata dal Covid-19 non ha fatto altro che aggravare questa situazione.

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