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Giovedì, 25 Aprile 2024
Economia

Metodo Danimarca: cosa farà Mario Draghi con le tasse

Evitare bonus, deduzioni, detrazioni, regalie a determinate categorie produttive, programmi sperimentali come la flat tax o il regime forfettario. E mettere in campo una riforma dell'Irpef abbassando il carico fiscale nei confronti del ceto medio

Cosa vuole fare Mario Draghi con le tasse? Ieri nel suo discorso al Senato il presidente del Consiglio ha spiegato due direttive che saranno piuttosto dure da far seguire ai partiti. Prima, una stoccata agli artefici di soluzioni improvvisate come la flat tax: "Le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta".

Metodo Danimarca: cosa farà Mario Draghi con le tasse

Poi è andato nello specifico: "La Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata. Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò ad una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente".

Il metodo Danimarca, dunque. Ovvero quello di evitare bonus, deduzioni, detrazioni, regalie a determinate categorie produttive, programmi sperimentali come la flat tax (o per meglio dire il regime forfettario) per le partite IVA, ma di studiare una riforma fiscale che indichi "priorità, certezze, opportunità". Ovvero "una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività". Combattendo anche l'evasione fiscale, che Draghi non dimentica e dalle prime sue parole non sembra aver intenzione di condonare alcunché. Ma come? Repubblica spiega che Draghi seguirà tre criteri per le tasse:

  • una revisione profonda dell’Irpef, semplificando, razionalizzando, abbassando il carico fiscale soprattutto sul ceto medio;
  • il rispetto del dettato costituzionale sulla progressività del prelievo (l’articolo 53);
  • il rafforzamento della lotta all’evasione fiscale.

Una scelta fatta di tre criteri ma non vicina a quella formula "alla tedesca" che sulle prime sembrava il suo faro e che era simile a quella proposta dal Partito Democratico per il 2021 al governo Conte quando ancora governava la vecchia maggioranza. Il programma di Draghi per le tasse prevede aliquote più leggere. Spiega il Corriere della Sera che verranno approfondite le ipotesi di intervento sulle aliquote Irpef, in particolare quelle tese ad attenuare lo scalone tra la prima e la seconda, con il prelievo che oggi schizza dal 27 al 38% al superamento dei 28 mila euro di reddito (e fino a 55 mila, penalizzando il ceto medio). Nel mirino anche la giungla delle tax expenditure: più di 600 tra deduzioni, detrazioni e sgravi, che spesso alterano l’equità della tassazione. 

Cosa vuole fare Draghi con Salvini (e Renzi)

La supercommissione di Draghi per le tasse 

A fare tutto questo, si immagina, sarà quindi una supercommissione di esperti nella quale probabilmente non entreranno politici ma al massimo tecnici d'area. Anche se invece secondo i quotidiani a farne parte potrebbero essere il deputato di Italia Viva Luigi Marattin e quello del Partito Democratico Luciano D'Alfonso, che da gennaio hanno in corso una "Indagine conoscitiva sulla riforma dell’Irpef e altri aspetti del sistema tributario". E che magari avvicini l'Italia al fisco danese: al top tra i paesi europei per rapporto gettito fiscale-pil oltre il 46%, contro una media Ue del 40,2%, la Danimarca vanta allo stesso tempo una rete di servizi efficiente finanziata appunto con le entrate fiscali: dalle cure mediche, alla scuola, al trasporto pubblico, la manutenzione delle infrastrutture, previdenza e borse di studio, tra le altre voci.

La fetta più consistente delle entrate tributarie proviene dalle imposte sul reddito e sui capital gains con il 63% (la percentuale più alta tra i Paesi Ocse), il 32% proviene dalle tasse su beni e servizi, solo il 4% dalle imposte sugli immobili. L'imposta sui redditi delle persone fisiche è progressiva fino ad un massimo del 51,7% (o ad un massimo del 55,6% includendo il contributo per il mercato del lavoro e sale al 56,25% includendo la Church Tax, che è facoltativa). Le imposte sui redditi delle persone fisiche in Danimarca sono quattro: l'imposta statale, quella comunale, quella sanitaria e un contributo per il lavoro, per un onere complessivo che va dal 38% a oltre il 55% appunto. C'è poi un'imposta su base volontaria, quella ecclesiastica. Ai lavoratori dipendenti viene riconosciuta una deduzione pari al 10,5% della remunerazione totale (compresi i benefit) fino ad un tetto massimo di 5.298 euro.

A tutti i contribuenti è anche riconosciuta una esenzione dall'imposta a valere per le prime 46.500 corone (6,253 euro), importo ridotto a 36.100 corone per i minorenni. Sul fronte imprese, l'aliquota dell'imposta sul reddito delle società è al 22% per le società residenti e quelle non residenti per i redditi prodotti entro i confini danesi. L'Iva è del 25% mentre i redditi da capitale sono tassati dallo 0 al 25%. È prevista anche una trattenuta fiscale dallo 0 al 27% sui dividendi pagati. La tassa sulle proprietà va dall'1,6% al 3,4%, a seconda del luogo in cui si trova la proprietà. La tassa sulle proprietà terriere raggiunge un massimo dell'1% sul valore del terreno, a seconda delle località.

Il modello danese di Mario Draghi favorisce i redditi medi

Oggi Repubblica fornisce qualche indicazione in più sul modello danese e sul modo in cui funziona. La riforma fiscale presentata dal premier danese Anders Fogh Rasmussen è arrivata mentre l'economia di Copenhagen si era insabbiata a causa di un crollo del mercato immobiliare e di una paurosa crisi dei consumi e venne accompagnata da un pacchetto di tagli al Welfare: ma dopo la riforma l’aliquota marginale continuò ad essere tre punti sopra la media Ocse, quella sui redditi medi e bassi cadde dieci punti sotto quella dei Paesi più sviluppati. 

La riforma di Rasmussen valeva 30 miliardi di corone, circa l’un per cento del Pil. Il premier danese tagliò di sette punti e mezzo l’aliquota marginale, allora la più alta d’Europa (dal 63 al 55%) e cambiò gli scaglioni di reddito, alzando l’asticella del reddito per l’aliquota più alta di quasi 5.000 euro. L’effetto fu che 350 mila danesi non dovettero più pagare la tassa più alta. 

Insieme, la riforma decurtò anche l’aliquota marginale più bassa di un punto e mezzo: ora ammonta al 36%. E la no tax area fu innalzata a circa 7.300 euro. Favorendo il ceto medio e sfavorendo i ricchi, visto che la progressività è rispettata e mano mano che si guadagna di più, si pagano più tasse. Ovvero l'esatto contrario della flat tax. 

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