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Venerdì, 29 Marzo 2024
L'ipotesi forte

In pensione a 63 anni dal 1º gennaio 2022 (ma prendendo meno del previsto)

In questi mesi sono state numerose le proposte messe sul tavolo da esperti, parti sociali, partiti politici e chi più ne ha più ne metta. Da Quota 41 (pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età) a Quota 102 (63 anni di età e 39 di contributi oppure 64 anni di età e 38 di contributi). Ma sono misure costosissime: si guarda altrove

Il 31 dicembre 2021 è la data di scadenza di Quota 100. C'è chi ritiene sia stata un successo, chi meno: di fatto, numeri alla mano, nel triennio coinvolgerà circa 350mila persone (forse meno), con un risparmio di quasi sette miliardi di euro rispetto alla spesa prevista. L'addio a Quota 100 è atteso, ma c'è chi ne dà un giudizio molto positivo. Tra le voci a favore della misura simbolo del primo governo Conte, si segnala oggi quella di Paolo Capone, Segretario Generale dell’UGL: "La riforma che ha favorito il turnover consentendo a 180mila uomini e 73mila donne di ottenere il pensionamento anticipato nel biennio 2019-2020. Come Sindacato UGL, abbiamo sostenuto fortemente una misura che, oltre ad attribuire ai lavoratori la libertà di scegliere se andare o meno in pensione, ha permesso il ricambio generazionale e l’accesso dei giovani nel mercato del lavoro, agevolando al tempo stesso l’ingresso di nuove competenze all’interno della pubblica amministrazione. Pertanto, come UGL - continua il sindacalista - continueremo a ribadire l’importanza di mantenere meccanismi di flessibilità in uscita e la necessità di prevedere strumenti che tutelino in particolar modo i lavori usuranti. In tal senso, auspico la convocazione di un tavolo tra Governo e parti sociali per discutere di una riforma complessiva del sistema pensionistico che sia fondata su un presupposto imprescindibile, ovvero il diritto di ogni lavoratore ad andare in pensione dopo 41 anni di versamenti".

Il rischio scalone per le pensioni

Parla di Quota 41 Capone, ma in realtà si sta andando verso altri scenari. Mancano pochi mesi e non è chiaro cosa succederà quando non saranno più ammessi i pensionamenti anticipati con almeno 62 anni d’età e 38 di contributi. Non è nota la strategia del governo Draghi sul tema pensioni. Il tavolo con le parti sociali annunciato dal ministro Orlando è stato interlocutorio. Il rischio scalone c'è ed è concreto. Lo scalone comporterebbe un aumento dei requisiti per il pensionamento di ben sei anni nella notte fra il 31 dicembre 2021 e il 1 gennaio 2022, come quello introdotto nel 2011 dal governo Monti. Ma al momento non vi è una emergenza economica paragonabile a quella del 2011 per giustificare in qualche modo una disparità di trattamento immediata e pesante.

Di colpo il pensionamento sarebbe accessibile solo a partire dai 67 anni di età. Si andrebbe verso scenari molto complessi. Dal 31 dicembre 2021, senza un’eventuale armonizzazione, per gli esclusi ci sarà un aumento secco di cinque o sei anni dei requisiti di pensionamento. Ecco un caso limite: Mario e Giovanni hanno lavorato 38 anni nella stessa azienda solo che il primo è nato nel dicembre del 1959 e il secondo nel gennaio del 1960. Mario andrà in pensione (se lo vorrà) a 62 anni, mentre Giovanni dovrà optare tra un pensionamento anticipato con 42 anni e 10 mesi nel 2026 o il pensionamento di vecchiaia con 67 anni e nove mesi, addirittura nel 2029. Tale scalone andrebbe persino oltre quello della vecchia riforma Maroni (legge 243/2004), quando fu introdotta una differenza di tre anni lavorativi tra chi avrebbe maturato il diritto alla pensione il 31 dicembre del 2007 e chi lo avrebbe fatto il primo gennaio del 2008.

In questi mesi sono state numerose le proposte messe sul tavolo da esperti, parti sociali, partiti politici e chi più ne ha più ne metta. Da Quota 41 (pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età) a Quota 102 (63 anni di età e 39 di contributi oppure 64 anni di età e 38 di contributi). Ma sono misure costosissime sulla carta. Alcuni hanno calcolato addirittura mezzo punto di Pil all’anno.

In pensione a 63 anni (con importo più basso)

Oggi su Repubblica Tito Boeri e Roberto Perotti, economisti, accademici, tra i massimi esperti italiani di pensioni,  lanciano "una idea per le pensioni" che farà rumore. Boeri e Perotti ipotizzano una maggiore flessibilità nell’età di pensionamento con la sostenibilità del sistema in questo modo: "Si può andare in pensione quando si vuole, a partire da 63 anni, ma accettando una riduzione attuariale, che oggi si applica alla sola quota contributiva, sull’intero importo della pensione, cosi come proposto dall’Inps 6 anni fa. Oggi questo significherebbe una riduzione media di un punto e mezzo per ogni anno di anticipo rispetto alla pensione offerta da quota 100; in futuro ancora meno - continuano - dato che le generazioni che andranno in pensione nei prossimi anni avranno una quota contributiva più alta su cui la riduzione è già comunque applicata in caso di pensione anticipata. Sarebbe un modo per ridurre le disparità di trattamento fra le pensioni contributive e le pensioni “miste”, perché permetterebbe anche ai titolari di quest’ultime di andare in pensione prima, purché abbiano almeno 20 anni di contributi e una pensione superiore ad una soglia minima (attualmente circa 1450 euro al mese) per non rischiare di finire in condizioni di indigenza, soprattutto quando incoraggiati fortemente dall’impresa a lasciare. La soglia a 1450 euro è nettamente al di sopra della soglia di povertà Istat. Si potrebbe abbassarla a mille euro, circa 2 volte la pensione minima, rendendo più ampia la platea potenzialmente interessata alla pensione anticipata".

Un'ipotesi che appare praticabile e a cui il governo guarderà con attenzione soprattutto per un motivo: in tal modo non ci sarebbero esodati dato che la possibilità di andare in pensione anticipatamente rimane.

Mesi fa il presidente dell'Inps Pasquale Tridico aveva spiegato una "sua" proposta simile. Uno spunto messo sul tavolo del lungo dibattito che ci si appresta a iniziare. La proposta di Tridico è quella di andare in pensione dai 62-63 anni solo con la quota che si è maturata dal punto di vista contributivo. Il lavoratore uscirebbe dunque con l'assegno calcolato con il contributivo e aspetterebbe i 67 anni per ottenere l'altra quota, che è quella retributiva. 

Le (quasi) certezze

E' molto probabile che si deciderà nel 2022 di rendere strutturali strumenti ben noti e già esistenti, come l'Ape sociale, Opzione donna o i contratti d'espansione. Si va quindi verso il rinforzo delle forme di flessibilità in uscita già esistenti. Lo suggerisce in primis il buonsenso.

Tutte le indiscrezioni più credibili indicano che si lavorerà al potenziamento dell'Ape sociale, che dovrebbe essere utilizzabile anche da altre categorie di lavoratori impegnati in attività considerate gravose o usuranti. Decisivo per l'allargamento della platea sarà lo studio che sta completando l'apposita Commissione tecnica istituita dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando. La flessibilità in uscita non può infatti che essere affiancata da misure mirate e già rodate come Opzione donna, Ape sociale o come i contratti di espansione, se si intende passare dalle parole ai fatti dopo mesi di dibattito stantìo.

Con Opzione donna le lavoratrici possono uscire dal mondo del lavoro a 35 anni netti di contribuzione e 58 anni di età anagrafica, per le subordinate, 59 anni per le lavoratrici autonome. L’Ape sociale è invece un sussidio erogato mentre si attende il raggiungimento dell’età pensionabile rivolto ai contribuenti di entrambi i sessi che hanno compiuto 63 anni e con 30-36 anni di contributi versati. Dovrebbero essere rinnovate entrambe anche per i prossimi anni, non ci sono particolari dubbi in tal senso, ma potrebbero essere anche rafforzate strutturalmente.

Il contratto di espansione invece consente di mandare in pensione su base volontaria i lavoratori fino a 5 anni prima (60 mesi) rispetto ai requisiti ordinariamente richiesti per la pensione di vecchiaia ma anche anticipata. Serve un accordo da siglare presso il Ministero del Lavoro tra azienda e sindacati, che deve contenere anche un certo numero di nuove assunzioni e deve essere finalizzato alla reindustrializzazione e riorganizzazione in ottica di sviluppo tecnologico dell’attività. L’obiettivo è quello di favorire la ristrutturazione delle imprese in crisi e il ricambio generazionale.

Dopo mesi di ipotesi, è il momento di tirare le conclusioni: è scontato che si troverà il modo di scongiurare lo scalone, ma non è dato sapere al momento in che modo il governo deciderà di farlo.

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