Pensioni: chi viene beffato dalla manovra del governo Meloni
L'esecutivo ha tenuto fede alla promessa di alzare i trattamenti bassi, ma sul fronte dell'età pensionabile le aspettative erano diverse
Tanto rumore per nulla? Sul fronte pensionistico le aspettative erano ben altre rispetto a ciò che alla fine si è concretizzato nella manovra. Nel programma di centrodestra venivano indicati due punti su tutti: introdurre dei meccanismi di "flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione, favorendo il ricambio generazionale" e l'innalzamento "delle pensioni minime, sociali e di invalidità". Per quanto riguarda Fratelli d'Italia, tra gli obiettivi messi nero su bianco prima delle elezioni figuravano anche lo "stop all'adeguamento automatico dell'età pensionabile all'aspettativa di vita", il rinnovo della misura "opzione donna", nonché il "ricalcolo, oltre un'elevata soglia, delle 'pensioni d'oro' che non corrispondono a contributi effettivamente versati".
Si tratta, beninteso, di misure da approvare nell'arco di un quinquennio e dunque non si può accusare il governo di non aver realizzato tutto e subito. Tanto più se consideriamo il contesto in cui si è trovato a operare. È indubbio però che qualche pensionato (o meglio: pensionando) si aspettava qualcosa di più. Specie dopo che in campagna elettorale la Lega ha martellato senza sosta su quota 41 e sulla necessità di prevedere meccanismi di uscita meno penalizzanti rispetto alla legge Fornero. Che per inciso non è stata ancora cancellata.
Quota 103 sostituisce quota 102
Alla fine il governo ha optato per un approccio prudente che però, nella realtà dei fatti, è meno vantaggioso (per i pensionati) rispetto a quello oggi in vigore. Quota 103, la nuova misura transitoria che sostituisce quota 102, prevede la possibilità di uscire dal lavoro a 62 anni per chi ne ha almeno 41 di contributi (oggi servono 64 anni di età e 38 di contributi). È stata poi decisa la proroga, invero abbastanza scontata, dell'Ape sociale, lo "scivolo" che permette a specifiche categorie di lavoratori in difficoltà (ad esempio perché hanno svolto per anni lavori gravosi o perché assistono un coniuge con una disabilità o ancora perché si sono ritrovati disoccupati) di ottenere un'indennità mensile come anticipo pensionistico.
Opzione donna viene rinnovata, ma con molti paletti
C'è poi il tema di "opzione donna" che è stata sì rinnovata, ma prevede dei requisiti molto stringenti. Se è vero che dal 2023 le lavoratrici potranno andare in pensione a 60 anni (oppure a 59 anni con un figlio e a 58 anni con due o più figli), l'anticipo pensionistico, e qui sta la vera novità, sarà riservato solo alle donne caregiver, alle invalide al 74% e alle lavoratrici di aziende in crisi (in quest'ultimo caso l'uscita è possibile con 58 anni d'età indipendentemente dal numero dei figli). Una stretta non da poco rispetto al meccanismo oggi in vigore. Le regole attuali infatti fissano solo una soglia contributiva (di 35 anni) e di età (58 anni per le dipendenti e 59 anni per le autonome). Il sottosegretario al lavoro Claudio Durigon ha ammesso che "sulla manovra purtroppo non ci sono più margini per opzione donna", ma qualcosa (forse) potrà cambiare "nel decreto Milleproroghe". Al momento però le cose stanno così.
L'aumento delle pensioni minime per gli over 75
Insomma, finora la manovra ha deluso quei lavoratori o lavoratrici che speravano di poter usufruire di "quota 41" e "opzione donna". Allo stesso tempo va detto che l'esecutivo ha tenuto fede all'impegno di alzare le pensioni minime: certo non sono arrivati i 1.000 euro promessi da Berlusconi, ma senza dubbio la maggioranza ha fatto un grande sforzo per rendere i trattamenti previdenziali più dignitosi. E così, dal 2023, per chi ha più di 75 anni l'importo minimo della pensione salirà a 600 euro.
La rivalutazione dei trattamenti dal 2023
C'è però l'altra faccia della medaglia. Il governo ha infatti modificato anche le percentuali di perequazione (il meccanismo che serve ad adeguare i trattamenti previdenziali all'inflazione) con il risultatto che rispetto alla normativa fin qui in vigore saranno svantaggiate le pensioni medio-alte. Se per i trattamenti fino a 4 volte il minimo non cambierà granché (la rivalutazione sarà del 100%, com'era già previsto prima della Finanziaria), per i trattamenti compresi tra 4 o 5 volte il minimo, la percentuale di rivalutazione passerà invece dal 90 all'85%. Andrà peggio a chi percepisce una pensione superiore a cinque volte la quota minima. Secondo il meccanismo in vigore prima della legge di bilancio, questi pensionati avrebbero dovuto ricevere una rivalutazione del 75%, ma con le modifiche introdotte dalla maggioranza gli incrementi saranno molto più modesti.
Prima della legge di bilancio, la rivalutazione veniva infatti applicata secondo tre scaglioni:
- indicizzazione piena al 100% per le pensioni fino a 4 volte il minimo (ovvero 2.100 euro);
- al 90% sulla quota di pensione tra quattro e cinque volte il minimo;
- del 75% sulle pensioni oltre cinque volte la quota minima;
Con le modifiche volute dalla maggioranza, lo schema diventa il seguente:
- rivalutazione del 120% per i trattamenti minimi, con la soglia minima fissata a 600 euro per gli over 75;
- rivalutazione del 100% per le pensioni fino a quattro volte il minimo, ovvero 2.101,52 euro;
- 85% tra 4 e 5 volte il minimo;
- 53% tra 5 e 6 volte il minimo;
- 47% tra 6 e 8 volte il minimo;
- 37% tra 8 e 10 volte il minimo;
- 32% oltre 10 volte il minimo;
Se le percentuali non fossero state toccate, i percettori di pensioni sopra 4 volte il minimo avrebbero avuto, a partire dal 2023, aumenti ben più marcati (ne abbiamo parlato qui). Ma quella del governo Meloni è stata una scelta ben precisa: dal momento che le risorse sono scarse, la maggioranza ha deciso di dare la priorità a quei pensionati che si trovano in condizioni economiche precarie.