Plauso al governo Meloni per aver pensato alla ricerca, introducendo nell’ultimo decreto PA un aumento del compenso fino al 30% per i ricercatori che vincono finanziamenti di ricerca importanti, come i progetti Gant Horizon e Marie Curie. La decisione - ha dichiarato la premier - è stata presa per "riportare in Italia i ricercatori scappati all'estero, perché noi vogliamo che gli italiani abbiano la possibilità di trovare qui le condizioni migliori per lavorare".
Peccato però che stiamo parlando solo di ricercatori di alto profilo mentre si dovrebbe fare qualcosa anche per sostenere chi decide di intraprendere questa strada, oggi lunga e tortuosa. Prima di far tornare i cervelli in Italia bisognerebbe evitarne la fuga, riqualificare l’intero percorso partendo dal basso per ridare dignità alla ricerca italiana. Le attuali condizioni retributive e di lavoro, infatti, sono totalmente inadeguate e distanti anni luce dagli standard europei. Andiamo per ordine.
Ricercatori in fuga, il piano Meloni non basta
La fuga di cervelli all’estero è un problema noto da tempo per il quale negli anni si è fatto davvero poco. Partiamo dagli stipendi. Prima di diventare ricercatore bisogna fare il dottorato: durante questi tre anni lo stipendio minimo ammonta a 1.195 euro netti al mese, troppo poco visto il costo della vita. E pensare che fino a qualche mese (luglio 2022) fa prendevano anche meno, 800 euro al mese. Lo stipendio di un ricercatore, invece, si aggira tra i 1.400 e i 1.900 euro al mese. Se poi si diventa professore associato si guadagnano circa 2.300 euro al mese che diventano 4.000 quando si diventa professore ordinario.
La vita dei dottorandi, con meno di 1.200 euro al mese (situazione in cui si ritrova circa l’80%), è frustrante: pochi lussi e tanto lavoro (con una quasi totale assenza di tutele). Solo l’affitto nelle città universitarie porta via più del 30% della borsa. Secondo un recentissimo sondaggio Adi - Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, il 54% degli intervistati (oltre 5mila, pari al 12% totale) non riesce a risparmiare nulla e si limita a spese strettamente necessarie. Da qui il malessere, con effetti psicologici negativi soprattutto per le donne: a fronte del 37,2% di dottorandi che sentono spesso o sempre 3 o più fattori di malessere su 6, tra le dottorande la percentuale sale al 46,7%. E così dopo il Phd, questo il nome del dottorato oltre i confini, molti ricercatori italiani fuggono all’estero: nell’ultimo decennio solo negli Stati Uniti sono stati assunti 3mila docenti universitari italiani.
Il confronto con l'Europa
Neanche a dirlo, il confronto degli stipendi dei ricercatori italiani con il resto del mondo è disarmante, così come quello con il resto d’Europa. Mettendo insieme costo della vita e valore delle borse per tornare in linea con Francia, Spagna e Germania sarebbe necessario un aumento della borsa a 1.500 euro al mese, sostiene l’Adi sottolineando che il divario con Olanda e Danimarca è molto più ampio.
Secondo un'indagine dei ricercatori dell'Università di Berkeley uno junior professor in Bavaria guadagna in media 52.689 euro mentre un 'lecturer' inglese 49.168 euro, a fronte dei 28.256 euro di un corrispondente italiano; l’associate professor tedesco 70.333 euro, quello inglese 69.835, mentre quello italiano 40.988; il professore di ruolo tedesco 82.627 euro, quello inglese 91.973, mentre quello italiano 57.178 euro.
Da segnalare che la remunerazione dei colleghi transalpini beneficia di una quota variabile che non esiste per gli italiani e che prende in considerazione il numero dei figli e la città in cui si lavora, per tenere conto anche del costo della vita. Questa quota è stabilita per legge in Francia mentre può essere negoziata in Germania e nel Regno Unito, dove in media è pari al 20% dello stipendio base.
Conclusioni
Fare il ricercatore in Italia è una missione, soprattutto per il sesso femminile visto che tra i due sessi esiste una differenza retributiva di circa 300 euro, mentre all’estero non si superano i 200 euro. Da considerare poi che nel nostro Paese i tempi per fare carriera sono molto più lunghi rispetto alla media europea.
Riassumendo: i ricercatori in Italia sono sottopagati rispetto ai colleghi europei, sono frustrati perché non riescono a essere indipendenti economicamente, non hanno tutele e devono aspettare molti più anni per fare carriera. Tutto questo perché l’Italia non riconosce ancora la ricerca come un vero lavoro. Di fronte a questa innegabile evidenza, possiamo biasimare i 30enni che fuggono all’estero (togliendo ricchezza al nostro Paese) per cercare di costruirsi un futuro?