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Venerdì, 19 Aprile 2024

Cristina D'Amicis

Giornalista

Dopo una vita di lavori in nero solo un pugno di mosche

Da poco abbiamo festeggiato il 1° maggio, la Festa dei Lavoratori, festeggiato si fa per dire visto che il mercato del lavoro italiano ha ancora tante, troppe, difficili sfide da affrontare. Potendo fare un elenco metteremo in testa alla lista gli elevati livelli di disoccupazione, specie giovanile, la precarietà, i salari tra i più bassi d’Europa, gli incidenti mortali sul lavoro, l’occupazione femminile ai livelli della Guyana francese, le differenze esponenziali tra Nord e Sud Italia. La prima posizione, però, risulterebbe sicuramente occupata dal lavoro nero. Eh sì, perché il lavoro nero è una piaga che nessuno sinora è riuscito a sconfiggere. Negli anni sono passati al governo partiti di destra e di sinistra, eppure il lavoro irregolare è rimasto lì, granitico, niente e nessuno lo ha scalfito. La conferma arriva da questa storia, che parla di 40 anni di lavori in nero.

La donna che ci ha raccontato questa storia ha iniziato a lavorare in una pasticceria quando era poco più di che ventenne. Era un ‘lavoretto’ (altro modo per intendere un lavoro in nero) che le permetteva di guadagnare qualcosina per comprare scarpe e vestiti. La rendeva felice, ma in cuor suo sperava che prima o poi potesse diventare qualcosa di più, un lavoro in grado di garantirle l’autosufficienza. Dopo anni di vane speranze, la ragazza ha trovato un altro lavoro, questa volta in una panetteria. Le piaceva servire i clienti in un ‘quartiere bene’ di una grande città, anche se doveva svegliarsi tutti i giorni all’alba. La paga non era alta ma poteva bastarl visto che viveva ancora a casa con mamma e papà. E così via, di anno in anno, di lavoro nero in lavoro nero sono passati i suoi anni più belli. Questo offriva il mercato e questo ha accettato. Quando i genitori sono venuti a mancare, per la ragazza ormai diventata donna sono iniziati i guai. Si è ritrovata a dover pagare affitto e bollette con uno stipendio da fame e con la prospettiva di una vecchiaia ‘magra’ visto che non le erano mai stati versati i contributi. La vita non le ha nemmeno regalato la gioia di un matrimonio e quindi del supporto morale ed economico di un marito. A quasi sessant’anni si è ritrovata a lavorare in un bar di periferia, per otto ore al giorno, sei giorni su sette, in cambio di 900 euro al mese, meno di 5 euro l’ora. Sa bene cos’è la fatica, ha sempre lavorato, festivi compresi, potendo contare solo su due settimane di ferie ad agosto quando il bar chiudeva (naturalmente non retribuite). Ma lei era abituata, ‘funzionava’ così anche dove aveva lavorato in passato. Poi il bar ha chiuso. Quando il datore di lavoro l’ha mandata via, dopo averla sfruttata per quasi sette anni, le ha solo detto: da domani non venire più che non ce lo possiamo permettere. Peccato che neanche lei si può permettere di restare senza un lavoro e che a causa dell’età e dei problemi di salute non ha trovato nessuno disposto a darle una nuova occupazione, neanche in nero. Ora sopravvive grazie al reddito di cittadinanza e la cosa triste e che se glielo chiedi lei dice di essere grata a chi in passato le ha dato un lavoro. Sapete perché? Perché non conosce cosa sono i diritti, non li ha mai avuti!

Questa storia di vita vera racconta 40 lunghi anni durante i quali lo Stato ha chiuso un occhio nei confronti del lavoro nero, anzi forse tutti e due. Com’è possibile che in un lasso di tempo così lungo non ci siano stati controlli, nessuno si sia accorto di nulla? Eppure grazie al lavoro sommerso si stima siano stati creati 77,8 miliardi di euro (dati 2019 della Cgia Mestre). Persino durante la pandemia, quando tutti erano chiusi in casa a causa del lockdown e quando serviva l’autocertificazione per uscire, la protagonista della nostra storia ha rischiato multe salate per guadagnare qualche spicciolo con il suo lavoro in nero (ed è stata pure "fortunata", come dice lei, visto che in molti a causa della pandemia hanno perso pure quello). Chissà quante persone potranno facilmente riconoscersi in questo racconto di vita. Non stiamo parlando solo di braccianti agricoli extracomunitari e di badanti, ma anche di baristi, commessi, muratori, operai edili... Le stime parlano di 3,3 milioni di vittime, il 13% del mercato del lavoro totale. Avete letto bene, vittime… vittime incolpevoli di aver trovato datori di lavoro poco onesti pronti a sfruttarli ma anche vittime dello Stato, rimasto impassibile a guardare. Sono numeri inaccettabili per un paese che si considera civile e che rappresenta l’ottava potenza economica mondiale. E’ inutile parlare di futuro, di Pnrr, di ricostruzione post Covid, di rinnovabili, di sostenibilità, di grandi progetti, di inclusione se ancora continuiamo inesorabilmente ad ignorare il problema del lavoro irregolare. In questo momento storico durante il quale stiamo rimettendo tutto in discussione, cerchiamo di costruire basi solide anche sul mercato del lavoro e di garantire pari diritti a tutti proprio come recita l’articolo 36 della nostra Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

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