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Giovedì, 28 Marzo 2024
Eldorado all'italiana

Una città senza tasse per gli amici di Salvini

Gli accordi con Ungheria e Turchia rilanciano il progetto di porto franco per la città di Trieste. E rallentano la penetrazione cinese lungo la Via della seta. Gara degli investitori per centinaia di milioni e nuovi posti di lavoro

Mancano due minuti alla fine del match e la piscina Bruno Bianchi è una bolgia. Il quarto di finale di Euro Cup che mette di fronte la Pallanuoto Trieste e gli ungheresi dello Szolnok è bloccato sul punteggio di 9 a 9. Le lancette scorrono veloci. In palio c’è la semifinale in una competizione continentale, traguardo mai raggiunto dalla squadra giuliana e che arriva grazie alla doppietta di Andrea Mladossich. Il match finisce 11 a 10 per Trieste, con il presidente Enrico Samer che può esultare per un risultato sportivo straordinario. A dire il vero, la programmazione impostata dall’imprenditore triestino è figlia di un modello di gestione che, con un richiamo alla storia di questa terra, si potrebbe definire asburgico. Enrico Samer è al comando della Samer & Co. Shipping. Cinquecento dipendenti, presenze in Italia, Albania, Bosnia Erzegovina, Croazia, Montenegro, Serbia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria, un vero e proprio colosso nel settore delle spedizioni e nel brokeraggio. Quei due goal, che hanno fatto esplodere la piscina nel quarto di finale vinto, non sono frutto del caso. Parte della grande fortuna dell’azienda risiede nel terminal portuale dove gestisce la cosiddetta autostrada del mare con la Turchia.

Ankara ha nel porto di Trieste il suo sbocco verso l’Europa centrorientale. La competizione all’interno dello scalo italiano con la più alta movimentazione di merci vede la presenza di numerosi investitori stranieri. Dopo la firma del memorandum con la Cina sulla futura Via della seta, che metteva al centro dei traffici proprio il porto di Trieste, se si facevano domande su Pechino, Zeno D’Agostino, il presidente dell'Autorità portuale, rispondeva spesso tirando in ballo la lunga lista di investitori. "Ci sono gli ungheresi, i turchi, i tedeschi e molti altri", questo il senso delle risposte. Ma andiamo con ordine.

Che fine ha fatto la Via della seta

L'accordo con la Cina di Xi Jinping viene firmato a Roma nel marzo 2019. Sul tavolo poggiano dossier per "potenziali venti miliardi". Zeno D’Agostino firma l'intesa (quasi da ministro degli Esteri, si dirà tra i corridoi) per la città dove, "nel retroporto", dovrebbe entrare il colosso logistico cinese Cccc. Poi la pandemia congela il mondo. Ma da qui in avanti, ogni giorno in porto a Trieste sembra esserci la fila di investitori che vogliono "portarsi a casa" un mattoncino dello scalo.

Matteo Salvini, da ministro delle Infrastrutture, apre le porte ai suoi amici ungheresi concedendo 34 ettari, 650 metri di banchina a fronte di 200 milioni di euro di investimento per acquisire l’area dell’ex raffineria Aquila della società Teseco.

Italian Deputy Premier and Interior Minister Matteo Salvini (L) with Hungary Foreign Minister, Peter Szijjarto, in Trieste, Italy, 05 July 2019. The pair met during the signing of a deal between a Hungarian publi

In totale sessant’anni di concessione, per lo sbocco marittimo del progetto della Via della seta di cui fa parte anche la ferrovia Budapest-Belgrado, finanziata pressoché interamente dalla Cina. Durante l’ultima visita del ministro degli Esteri di Budapest, Péter Szijjártó, si è passati all’accordo operativo per consentire alle aziende magiare di usare la quota ungherese del porto e iniziare le esportazioni. 

Il presidente Zeno D’Agostino con il ministro degli Esteri Péter Szijjártó

Qualche tempo prima erano iniziati i lavori dentro FreeEste, il retroporto con zona franca, libera cioè da tasse e dazi doganali. Si sparge la voce, tutti lavorano di squadra. Nel giro di qualche mese spunta un altro colosso. Questa volta è la British American Tobacco che, nonostante alcune controversie internazionali per presunte corruzioni in Africa, arriva a Trieste e viene salutata come la grande benefattrice, in un progetto mastodontico. L’annuncio, è proprio il caso di dirlo, assomiglia alla classica fumata bianca: in cinque anni si prevede un investimento da 500 milioni. Al momento lo stabilimento dà lavoro a circa 50 persone e in 5 anni, secondo il piano dell'azienda, saranno 600 le persone occupate direttamente da Bat, e 2.700 le persone coinvolte nell'indotto. Un radioso futuro che fa sorridere l’intera classe dirigente locale.

la prima linea di produzione dello stabilimento di British American Tobacco (BAT) Italia a San Dorligo della Valle (Trieste)

Nel mezzo, a settembre 2021, scoppia la bolla No green pass con lo sgombero del fronte del porto, richiesto a gran voce dal governo di Mario Draghi. L’avversario dell'esecutivo diventa Stefano Puzzer, leader del Comitato dei lavoratori portuali Trieste, che convince l’ala dura dei facchini a mostrare i muscoli. Il porto lavora a singhiozzo, la protesta si allarga. In quel periodo anche le macchine della Formula 1, che Samer deve portare in Turchia per il Gran Premio di Istanbul, scelgono un altro porto. Un danno economico, quello legato al blocco, che verrà definito incalcolabile.

No green pass porto trieste

La Cina rientra dalla finestra

E la Via della seta? Niente di fatto: il memorandum firmato con la Cina si arena, almeno in apparenza. Ma ad aprile 2021 si muovono i tedeschi della Hamburger Hafen und Logistik AG, terminalista del porto di Amburgo che ottiene la concessione della nuova piattaforma logistica del porto di Trieste per 31 anni. E, via Berlino, arriva anche la Cina. 

Dopo anni di tensioni e incertezze, infatti, la Germania ha deciso di aprire la porta a Pechino. La Cina, attraverso l'impresa statale China Ocean Shipping Company (Cosco), acquista il 24,9% delle quote di uno dei quattro principali terminal del porto di Amburgo, tra i più grandi di Europa, da Hamburger Hafen und Logistik AG (Hhla), partecipata dall’ente amministrativo federale della città tedesca. Il colosso asiatico mette così le mani su uno dei siti tedeschi più strategici, grazie al compromesso raggiunto con il cancelliere Olaf Scholz (che di Amburgo è stato sindaco), che inizialmente aveva previsto una partecipazione cinese del 35 per cento.

Il cancelliere comunque tira dritto, nonostante l'opposizione all'operazione di ben sei ministri tedeschi, il Parlamento e le agenzie di intelligence del Paese. E lo fa rassicurando su quel 24,9%, che non permetterebbe al colosso di Pechino di influenzare la gestione del terminal, né di avere diritto di veto sulle decisioni strategiche in materia di affari o di personale. C'è un ulteriore vincolo stringente: a Cosco non verrebbe concesso il diritto di nominare membri del management.

Le quote di Amburgo

Il colosso cinese non ha puntato lo sguardo solo sul porto di Amburgo. Il gruppo Cosco è la quarta compagnia di spedizioni di container al mondo e possiede il 40% delle azioni di Vado Gateway, il terminal container del porto di Savona Vado Ligure, gestito da APM Terminals Vado Ligure Spa, società italiana composta da APM Terminals (50,1%), Cosco e l'altra società cinese Qingdao Port International (9,9%). Ma la lista della presenza di Cosco nei porti di tutto il mondo è lunga. Mentre la Hamburger Hafen und Logistik AG è diventata recentemente il socio di maggioranza, con il 50,01 per cento, del terminal multipurpose "Piattaforma logistica Trieste" (Plt) nel porto giuliano.  

Per sedare le polemiche nate nel Bundestag, il Parlamento di Berlino, la società tedesca di logistica e trasporti ha precisato (sul suo sito web) quale sia la natura della cooperazione con Cosco che - si legge - "non crea dipendenze unilaterali. Al contrario: rafforza le catene di approvvigionamento, assicura posti di lavoro e consente la creazione di valore in Germania". Quindi, precisa Hhla, il colosso cinese non riceve alcun diritto esclusivo sul Container Terminal Tollerort, la zona gestita dall'azienda tedesca. La questione è complessa e gli esperti rassicurano: la presenza di Cosco nel porto giuliano - anche se in minima parte - non dovrebbe rappresentare questioni di sicurezza. Ma come si è arrivati fin qui?

L'ex premier Giuseppe Conte con il presidente cinese Xi Jinping a Roma il 23 marzo 2019 durante la firma del memorandum per la via della seta

Per comprendere come la Cosco potrebbe avvicinarsi al porto di Trieste (attraverso quindi un ingresso secondario), bisogna riavvolgere il nastro al 2019, quando l'Italia ha siglato il memorandum d'intesa con la Repubblica Popolare Cinese. Il governo gialloverde, allora alla guida di Palazzo Chigi, ha aperto la principale porta italiana alla nuova Via della seta cinese (Belt and Road Initiative - Bri), il megaprogetto infrastrutturale lanciato nel 2013 dal presidente Xi Jinping. 

La preoccupazione americana

L'Italia è stata il primo e unico Paese del G7 a siglare questa intesa con il gigante asiatico. La firma del memorandum è stata accompagnata da una serie di accordi commerciali, compresi quelli tra i porti di Genova e Trieste e l'azienda statale China Communications Construction Company (Cccc), che non hanno mancato di suscitare preoccupazione internazionale. Il caso del porto greco del Pireo, privatizzato nel 2016 dai cinesi di Cosco che detiene il controllo del 67% dell'infrastruttura, ha messo in allarme Unione Europea e Stati Uniti, preoccupati dall'ingresso sempre più rilevante di aziende statali cinesi nei porti stranieri, con particolare attenzione alle infrastrutture sottosviluppate o che versano in difficoltà economica.

Perché la Cina punta gli occhi sulle infrastrutture strategiche europee? Le motivazioni sono semplici e si riconoscono principalmente nel ruolo cruciale che i porti giocano nella Belt and Rod Initiative, il progetto che mira a semplificare la connettività lungo la rotta commerciale e accedere a più vasti mercati esteri. Ma soprattutto risponde agli imperativi geopolitici ed economici che accompagnano la politica estera del Partito comunista cinese: da Pechino attraverso l'Asia fino all'Europa.

L'opacità e la vaghezza dei termini contrattuali ha spinto molti, nel 2019, ad alzare qualche sopracciglio in occasione della firma dei memorandum d'intesa (MoU). Ma, come precisato da Francesca Ghiretti in un report dell'IAI (Istituto Affari Internazionali), "i MoU dei porti di Genova e di Trieste con Cccc erano ampie dichiarazioni di intenti. Come in altri casi, avevano il potenziale per essere un primo passo verso la promozione della presenza di Cccc in Italia e in Europa. Gli accordi - si legge - limitano la portata degli affari del colosso cinese che, come altri soggetti, deve ottenere l'aggiudicazione di appalti tramite gara pubblica. In questo modo, il quadro giuridico nazionale ed europeo limita le capacità delle società straniere di acquistare o di acquisire attività in settori chiave delle economie nazionali degli Stati. In Italia, inoltre, il governo può esercitare il Golden Power, per controllare ed eventualmente bloccare gli investimenti esteri in entrata". 

Golden power, che cos'è e a cosa serve lo scudo per il Made in Italy

Ecco quindi che il porto di Trieste gioca un ruolo cruciale in uno scacchiere con più giocatori internazionali. Schacchiere ambito da molti. La nuova piattaforma logistica del porto di Trieste, ora in mano alla società di Amburgo, solletica infatti l'interesse di diversi affaristi, attirati dalle caratteristiche del sito.

Perché fare il porto franco

Centoventimila metri quadrati, la struttura può ospitare fino a quattro grandi navi e ha la ferrovia a due passi. Sì, la ferrovia. È sulle rotaie che un tempo collegavano l'Ardiatico a Vienna che si gioca la gara per il porto di Trieste. Tutti la vogliono, perché a tutti piace viaggiare in treno, soprattutto se per partire basta chiedere al casellante di alzare la sbarra. Il semaforo in uscita da Trieste, di questi tempi, è quasi sempre verde. Da quando Debora Serracchiani e Graziano Del Rio (entrambi in quota Pd) hanno nominato Zeno D’Agostino alla guida del porto giuliano (nel frattempo il manager veronese è diventato anche presidente dei porti europei), lo scalo vola a livelli mai raggiunti nel recente passato.

Zeno D'Agostino porto di trieste

Ma Zeno D’Agostino non si accontenta. Qualche settimana fa l'Autorità portuale ha ampliato i suoi confini. L'acquisto di 350 mila metri quadrati dell’area delle Noghere (vicino allo stabilimento della Barilla), da concedere a importanti investitori, è lo strumento per riuscire a realizzare un nuovo polo produttivo. Qui, potrebbe entrare in gioco un fondo internazionale, ma è ancora troppo presto per poter avanzare nomi. Non solo sul mare si fa la fortuna. Trieste è legata anche a ciò che sta alle sue spalle. È sul Carso, infatti, che il porto realizzerà il nuovo hub nel quartiere di Prosecco, presentato alla Fruit Logistica di Berlino nei giorni scorsi. Sessantacinque milioni di investimento, un’area di oltre 150 mila quadrati (con la ferrovia integrata) e un nuovo polo del fresco: una specie di grande magazzino refrigerato per l’agroalimentare, con collegamenti sia con il porto che con l’Africa mediterranea e il Medio Oriente, oltre alla vicinanza dell’autostrada. 

Complessivamente, sulla partita pesa poi una questione cara a chi mastica la storia di queste terre, vale a dire l'applicazione integrale dell’allegato VIII del Trattato di pace di Parigi del 1947. È lì, tra le pagine di quel documento, che si potrebbe nascondere l’eldorado italiano. Il tema principale è la possibilità di inserire il porto di Trieste nella lista dei territori extra doganali europei. Ceuta e Melilla, Helgoland, la Groenlandia, la Nuova Caledonia e Aruba, solo per citare rispettivamente le località a beneficio di Spagna, Germania, Danimarca, Francia e Paesi Bassi.  

"Lo Stato italiano, nell'ambito della sua comunicazione a Bruxelles relativa ai territori extra doganali – dichiara D’Agostino davanti al consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia diverso tempo fa – si è dimenticato di dire che il porto di Trieste ha tutti i requisiti in regola per essere presente nella lista. Una dimenticanza che non fa bene alla città e all'intero Friuli Venezia Giulia, ma anche un autentico problema politico: abbiamo la legge dalla nostra parte e persino un trattato internazionale che dice che l'Italia deve farsi viva a Bruxelles, per ovviare alla sua omissione".

"Pechino è scomparsa"

La traduzione è la seguente: Trieste potrebbe diventare il territorio italiano dove far entrare merce proveniente da chissà dove, lavorarla fino a prodotto finito e farla ripartire (a costo praticamente zero), timbrandola made in Italy. Un jolly da giocare così, facendo saltare il banco europeo e costringendo numerosi attori internazionali a guardarsi alle spalle.

Una possibilità economica molto ghiotta, sulla quale però il nuovo governo di Giorgia Meloni non si è ancora espresso. Tuttavia, l’hanno capito praticamente tutti, anche quei politici che nelle stagioni precedenti all’arrivo di D’Agostino preferivano l’immobilismo (o i porti del Tirreno). "Lo Stato italiano non ha inserito il porto di Trieste nel Codice doganale europeo", ha detto più volte D’Agostino. Come a dire che Roma si è dimenticata di Trieste, "la più italiana tra le città italiane".

E i cinesi dove sono finiti? "Noi avevamo fatto degli accordi importanti con i cinesi – spiega Zeno D’Agostino – che prevedono tante cose in Cina, ma fondamentalmente non ne è successa neanche una. Prima di fare eventuali aggiornamenti, che ho visto immaginare sugli accordi con i cinesi, mi sembra che andrebbe chiarito che siamo l'Italia e che se facciamo degli accordi vanno rispettati, sia sulle questioni che riguardano l'Italia, sia su quelle che riguardano la Cina".

Sul fronte degli accordi erano previsti sviluppi importanti sulla logistica in Cina. "Non li ho visti – dice D’Agostino – e mi sembra che le cose si fermino lì". Il tema preminente, in questo senso, è quello che lega i possibili investimenti alla geopolitica. "In questi tre anni è cambiato il mondo – continua il manager veronese -, le guerre da fredde sono diventate calde ed è chiaro che di fronte a guerre calde c'è chi sta da una parte e chi dall'altra. E mi sembra che in questo momento non stiamo dalla stessa parte".

La variabile Ucraina

Il presidente dello scalo giuliano ribadisce poi un concetto chiave, nel dibattito sui porti. "Parliamo di proprietà dello Stato italiano. Non comanda il concessionario, comanda il concedente che impone, o può imporre, ai soggetti concessionari tutta una serie di vincoli che qualche anno fa non erano necessari, mentre oggi lo sono".

Sull'entrata dei cinesi nel porto di Amburgo e l’equazione che li vorrebbe anche nel porto di Trieste, D’Agostino sottolinea di essere stato "sempre molto chiaro. Dico anche che alcune concessioni in Italia sono di preminente interesse geopolitico. Non capisco perché non si possa imporre la presenza dello Stato all'interno delle società concessionarie, evitando sorprese di qualsiasi tipo da parte dei concessionari che hanno in mano parti importanti dal punto di vista del ruolo geopolitico". "C’è ancora un tabù incredibile sul fatto che su determinate attività ci debba o non ci debba essere lo Stato, un tabù che non esiste in nessuna parte del mondo. Abbiamo a che fare tutti i giorni con società in porto a Trieste che sono diretta emanazione di Stati: ad esempio gli ungheresi e la stessa Ala, di proprietà della città-Stato di Amburgo. Da presidente del porto vivo questo paradosso totale. Ho a che fare ogni giorno con manager preparati e di diretta emanazione pubblica, cosa che invece in Italia è proibita - chiosa D'Agostino - Mi sembra quasi ridicola questa situazione".

Una situazione complessa, certo. Sullo sfondo, come variabile fondamentale, la guerra in Ucraina: il posizionamento della Cina rende oggi difficile accettare che si arrivi a nuovi accordi o investimenti. Ma il porto giuliano resta al centro di interessi convergenti: sbocco sul mare per l'Ungheria, terminal strategico per la Turchia, cavallo di Troia per le società cinesi, che potrebbero vedere nel meccanismo del porto franco il nuovo mercato per le proprie merci. Il gioco è semplice: nel retroporto le nuove società potrebbero agire in esenzione da dazi e imposizioni doganali e le merci potrebbero uscire sotto nuovi marchi. E così il futuro del porto di Trieste si gioca fuori dal porto, mentre si costruisce una nuova città "tax free": una nuova eldorado per il futuro italiano.

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