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Giovedì, 18 Aprile 2024

Il commento

Giulio Zoppello

Giornalista

Cleopatra nera, il blackwashing e il bisogno di un passato per gli afroamericani

Le polemiche circa la rappresentazione di un personaggio storico iconico come Cleopatra nella miniserie documentario di Netflix, firmata da Jada Pinkett Smith, sono solo l’ultimo episodio inerente quel fenomeno noto come blackwashing. Lo abbiamo visto succedere in ogni tipo di produzione, ha generato discussioni a non finire, ma ora una domanda domina: cambiare la rappresentazione per venire incontro alla nuova sensibilità fino a che punto può spingersi? La realtà, è che dietro tale fenomeno c’è soprattutto la comunità afroamericana, la sua impossibilità di sentirsi veramente storicamente integrata. 

Cleopatra di Netflix è solo l’ultima della lista

Alla fine i peggiori guai per Netflix sono arrivati proprio dagli egiziani. Non hanno gradito che Cleopatra fosse ritratta come “nera”, ed allora Mahmoud al-Semary, di mestiere avvocato, ha chiesto che nella sua patria la piattaforma venisse silenziata. Nel fu Regno dei Faraoni, il trailer, con la leggendaria Regina interpretata da una donna dalla pelle nera, è stato ritenuto dall’opinione pubblica un insulto al popolo egiziano e alla sua Storia. Si è parlato di appropriazione culturale. Un vero e proprio paradosso, se pensiamo che chi da anni è favorevole al blind casting sempre e comunque, ha regolarmente parlato della necessità di dare maggior spazio alle minoranze e a paesi sottorappresentati. Ma davvero è così? No. Cleopatra di Netflix è promossa dallo slogan “Mia madre diceva sempre: non badare a quello che ti raccontano a scuola. Cleopatra era nera” da parte di una sedicente esperta, le cui dichiarazioni sembrano esattamente ciò che sono: un’affermazione di parte. Allarghiamo lo sguardo, andiamo a vedere come oggi, personaggi originariamente bianchi siano interpretati o raffigurati in modo completamente diverso, anche al prezzo di effettuare una rottura radicale. La Sirenetta di Halle Bailey sta facendo discutere da anni prima ancora dell’uscita del film, abbiamo avuto l’Achille, Patroclo e Zeus di Troy: Fall of a City, la Valchiria di Tessa Thompson nel MCU, i cortigiani non europei di Mary of Scotland, ora la Charlotte di Bridgerton, e poi l’Anna Bolena della serie inglese, l’opportunità di un Superman non bianco. Sono lì a dirci una verità evidente: tutto questo riguarda il pubblico afroamericano. Certo, ci sono anche i latinos e le minoranze asiatiche (la riapertura del mercato cinese le porterà in posizione predominante) ma gli afroamericani sono letteralmente la priorità dell’industria audiovisiva anglosassone che cerca di dargli ciò che non hanno: un passato storico che sia scevro dal trauma del colonialismo o schiavismo. 

Una comunità privata del proprio passato

Spike Lee per buona parte della sua carriera cinematografica, ha bene o male cercato di capire in che modo la comunità afroamericana potesse trovare il proprio posto nella moderna società statunitense, ancora oggi strettamente divisa su base etnica in modo radicale. Fa la cosa Giusta, Da 5 Bloods, He Got Game, Jungle Fever e tanti altri suoi capolavori ci hanno parlato della conseguenza di un fatto oggettivamente inattaccabile: la comunità afroamericana è diversa da tutte le altre. Lo è perché, nella sua composizione eterogenea, sfumata e in perenne cambiamento, non ha un vero passato arcaico a cui fare riferimento. Gli immigrati italiani, irlandesi, tedeschi, i messicani o portoricani, i cinesi, si sono mischiati tra di loro, oppure hanno mantenuto un’identità originaria chiara col paese d’origine, basti pensare a certi quartieri di Boston, L.A. o San Francisco. Erano migranti, venivano da altri paesi in cerca di fortuna di propria sponte, portavano con sé un retaggio culturale comune, tradizioni, identità. L’Africa, intesa come subsahariana con tutte le sue nazioni, in America non è arrivata con coloni o migranti, ma schiavi, strappati dalle loro terre d’origine, costretti ad essere meri oggetti. Non hanno potuto conservare i loro usi e costumi, di fatto la loro identità è connessa allo schiavismo e alla liberazione da esso. Sono legati in modo generico al continente, non alle singole nazioni di esso, di cui non sanno nulla. Vale per gli Stati Uniti, vale per ogni ex paese colonialista ed ex schiavista. Non è quindi un caso che il blackwashing succeda ora negli USA e in Gran Bretagna, i due paesi che sugli schiavi un tempo lucravano come nessun altro. Fino alla prima metà del ‘900, gli afroamericani erano quasi assenti dalle aree urbanizzate dell’America, il che spiega (anche) perché non fossero rappresentati se non marginalmente nella neonata industria dell’intrattenimento. Questo, unito al razzismo, alla povertà, all’emarginazione, li ha visti vittima di whitewashing, di una caratterizzazione umiliante. Sono i discendenti di un altro continente totalmente diverso; quindi, fanno l’unica cosa che possono fare: cercano di prendere un pezzo di passato “bianco” del paese in cui i loro avi furono trascinati in catene, di crearne uno alternativo per sé stessi, non importa se reale o meno.  

Tra ucronia e volontà di reclamare il proprio spazio

Il punto di svolta di questo atteggiamento è stato senza ombra di dubbio Black Panther, il cinecomic più politicizzato della Marvel, capace di avere un impatto incredibile presso il pubblico delle minoranze. 
Il regno di Wakanda, T’Challa, rappresentano una narrazione ucronica, un “what if” in cui nasce una superpotenza africana in grado di sopravvivere all’invasione europea, di diventare magari faro per la rinascita del continente. Al di là della mediocrità del film in quanto tale, Black Panther rappresenta una fantasia afroamericana, non africana. Il film in sé è caratterizzato da dalla volontà di revanche dei neri in America, su come loro immaginano non solo l’Africa, ma sé stessi in una posizione che non hanno mai avuto. Al netto di alcuni membri del cast, la stessa rappresentazione del Wakanda, era frutto di un punto di vista esterno alla realtà del continente. Vi era un ibrido di quelle culture che il colonialismo ha distrutto, asservito, di fatto slegato dalla realtà storica, in cui ci si combatteva come è successo in altri continenti tra nazioni come ovunque. The Woman King è stato la naturale conseguenza di questa volontà di riscrivere la storia: un’ucronia consolatoria, a cui segue ora il cercare nell’antica Roma, nella Grecia classica, personaggi dalle caratteristiche subsahariane, in virtù di una “revanche” ad uso e consumo del pubblico afroamericano. Un pubblico per il quale gli africani sono tutti come loro, i Nord-Africani con il loro passato connesso ai berberi, amazigh o tuareg non sono neppure contemplati. Ecco perché Cleopatra nera, Imperatori romani “neri”, Annibale, se venisse fatto un biopic, sarebbe quasi sicuramente rappresentato come nero subsahariano. Questo è uno sbattere le mani sul tavolo, una volontà di coinvolgimento che è anche un grido d’aiuto. Non finirà presto, ed in realtà può creare, sta già creando, una mistificazione molto pericolosa, invece della riscoperta della storia africana. 

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