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Giovedì, 25 Aprile 2024

Simone Valesini

Giornalista

Ritorno allo spazio, su Netflix un lungo (e ben girato) spot per Elon Musk

Su Netflix si torna a parlare di esplorazione Spaziale. O meglio, si tornano a raccontare le fatiche, i successi e le ambizioni di Space X e del suo fondatore, Elon Musk, impegnati in una missione che vuole rivoluzionare il business dei viaggi nello Spazio. Se con Countdown: Inspiration4 Mission to Space Netflix ci aveva mostrato nel dettaglio la nascita del turismo spaziale, il seguito ideale della serie, Ritorno allo spazio, si concentra su un altro grande successo di Space X: la prima missione privata con equipaggio sulla Stazione Spaziale Internazionale. E come per il suo predecessore, lo fa con un prodotto dal ritmo e dall'aspetto godibile, e un tono agiografico che a tratti lo fa assomigliare terribilmente ad un lungo spot pubblicitario.

Intendiamoci: il documentario è ben realizzato. E racconta una storia interessante, che inizia con il dramma dello shuttle Columbia, esploso in volo nel 2003 durante il rientro in atmosfera, e dei sette astronauti morti nell'incidente. E prosegue – anche se per lo più sullo sfondo – con l'abbandono del programma space shuttle, e poi con una lunga serie di intoppi che portano gli Usa a dipendere per circa un decennio dalle navicelle Soyuz dell'agenzia spaziale russa per trasportare i suoi astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale. 

La soluzione, chiaramente, arriva dai sogni di un visionario come Musk, che fonda una piccola startup dedicata all'esplorazione spaziale, e in poco meno di 20 anni riesce a trasformarla in un colosso del comparto aerospaziale. Grazie al lavoro di un brillante team di ingegneri, Space X arriva a sviluppare il Falcon 9, un sistema di razzi riutilizzabili che riduce notevolmente i costi dei viaggi nello spazio, e nel 2020 è la prima azienda privata a ricevere l'autorizzazione a trasportare un equipaggio sull'Iss: è la missione Crew 2, a cui ruota attorno tutto il documentario. Per la Nasa, il successo di Crew 2 significa risparmiare un bel po' di soldi ad ogni lancio. Ma soprattutto, recuperare una capacità di volo spaziale domestica, anche se subappaltata al settore privato. È questo evidentemente il significato del titolo scelto, Return to Space: l'America ritorna nello spazio, con le proprie gambe. 

Per i due astronauti che partecipano all'impresa, Doug Hurley e Bob Behnken, quella raccontata nella pellicola è una sfida in cui sogni e paure si fondono, con lo spettro sempre presente del Columbia a fare da sfondo. Il documentario racconta ansie e paure dei due astronauti, e come queste influenzano la loro vita e quella dei loro familiari. Ci mostra uno spaccato interessante sulle ossessioni e le superstizioni degli scienziati che lavorano alla missione, con i loro calzini porta fortuna di Star Wars, e le scaramanzie sui colori da indossare il giorno del lancio. Ci fa vivere il brivido dell'attesa nella sala di controllo, mentre il razzo Falcon 9 decolla per la prima volta con un equipaggio umano. E al rientro, nei tremendi minuti in cui il surriscaldamento dell'atmosfera impedisce le comunicazioni con l'equipaggio. 

Questi aspetti rendono la storia interessante, e Ritorno allo spazio fa un ottimo lavoro nel raccontarli. Come era prevedibile, visto che alla regia troviamo Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhely, che nel 2019 hanno vinto l'Oscar con il documentario Free Solo, dedicato all'arrampicatore americano Alex Honnold. Quel che manca, nel caso di Ritorno allo spazio, è tutto il resto: la pellicola è un lungo e acritico racconto dei successi di Space X, che evita di porsi qualunque domanda scomoda. Non indaga in nessun modo, ad esempio, come nasca la scelta di affidarsi ai privati per una funzione così fondamentale per il programma spaziale americano (ancora interamente finanziato con i soldi della Nasa, che hanno sovvenzionato anche i successi di Space X), né approfondisce i dubbi sollevati in passato da personalità come Neil Armstrong, il primo uomo a mettere piede sulla Luna. E non spreca un minuto per ragionare sull'effettivo valore dell'impresa portata a termine da Space X: un traguardo logistico e commerciale; dal valore simbolico, certo, ma nulla più. 

Sentire Elon Musk che parla di una tappa fondamentale verso la colonizzazione di Marte e la trasformazione dell'umanità in una specie multiplanetaria – concetto che ripete almeno un paio di volte anche nel documentario – non fa che aumentare le perplessità. Sognare in grande è una qualità. Ma gli slogan commerciali andrebbero presentati per quello che sono: a dispetto di quello che ci racconta Musk, infatti, un viaggio umano su Marte al momento non è neppure all'orizzonte; la colonizzazione di un altro pianeta, pura fantascienza. Pensare che basterà un razzo riutilizzabile per avvicinarci all'obbiettivo è un'illusione. E raccontare che saranno imprenditori visionari come Musk a renderlo possibile – come fa Ritorno allo spazio – una bugia. 

Il ruolo dei privati per ora è quello di fornire servizi alla Nasa. Ma è la ricerca pubblica che continua a puntare ai grandi obbiettivi come Marte o la Luna. Difficilmente la situazione cambierà radicalmente nei prossimi decenni, anche perché le opportunità di guadagno immediato per l'esplorazione spaziale rimangono quasi inesistenti. Se poi questo mutamento dovesse compiersi realmente, arriverebbe probabilmente il momento di porsi una domanda che il documentario evita abilmente di affrontare per più di due ore: siamo sicuri che sia un bene affidare ai privati anche l'esplorazione dello spazio?

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