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Giovedì, 18 Aprile 2024
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Redazione

"Ero alla sfilata e pensavo alle bombe". Un bel tacer non fu mai scritto (dagli influencer e non solo)

Il tilt più grande è accaduto proprio al principio della guerra. Ovvero nella notte tra il 23 e il 24 febbraio, quando Putin sganciava la prima bomba e Amazon Prime Video - come prestabilito - mandava in trend su Twitter, suo malgrado, l'hashtag sponsorizzato #Lol2, in lancio dello show comico in arrivo sulla piattaforma. Non c'era proprio niente da ridere, quella mattina, tanto che poco dopo, l'hashtag è stato rimosso. Un tempismo involontario ma emblematico prologo del grottesco show (assolutamente volontario) in cui sarebbero collassati di lì a poco i social newtork, nel pieno di quel "bel tacer che non fu mai scritto" tanto caro ai proverbi. Il tutto complici - ovviamente - gli influencer, il cui "slack activism", ovvero "l'attivismo per fannulloni" (quello, per intenderci, in cui ognuno di noi sente di aver fatto qualcosa per rendere il mondo un posto migliore con un click, senza che questo infici la nostra quotidianità) questa volta sta virando verso derive giudicate da più parti irrispettose.

La corsa a mostrarsi umani (che rende disumani). E la Fomo, ovvero la fobia di restare fuori dal dibattito

Sì perché di fronte a chi ha dichiarato "stavo alla sfilata ed avevo le immagini di queste bombe mentre vedevo le modelle che camminavano", il problema non è tanto nella banale accusa di ipocrisia nell'alternanza tra foto di vittime e post-marchetta al brand di turno alla Milano Fashion Week, tra accorati appelli di pacificazione e selfie al centro massaggi, quanto nella struttura del tutto. Nella corsa a pronunciarsi sul tema anche quando, evidentemente, non si sono trovate le parole giuste per farlo (senza che sia necessario averle per forza, eh, ndr). Per piegarsi ad una logica algoritmica e, dunque, di guadagno? Per "normalizzare" a livello social(e) i propri privilegi? Di certo il risultato è l'opposto: la corsa a mostrarsi umani che fa apparire ancor più disumani. Oltre a creare vere e proprie insidie per il pubblico. E che è ossequio a quella fobia sempre più radicata di restare fuori del dibattito social (Fomo, Fear of Missing Out: è un fenomano sociale). 

Emblema del "caso influencer", per capirci, è il vespaio scatenato sotto ad un post pubblicato due giorni fa sul profilo Instagram dell'inserto Style Magazine del Corriere della Sera. Nel post in questione, una modella con make up perfetto e in procinto di accomodarsi nel front row della MFW, si mette in posa e tiene in mano un cartello di cartone con scritto "No War In Ucraine". In calce, gli utenti si risentono: "Influattiviste di sto cavolo". E ancora: "Un cartello buttato lì tra una sfilata e l'altra, un post strappalacrime tra un adv e una story post sfilata è solidarietà? No, strumentalizzazione", conclude qualcun altro.

Insomma, l'attivismo performativo di cui è stata piena la rete finora (quello per cui gli attori si vestivano di bianco con l'hashtag #White4AfghanWomen, pura messinacena e pura deriva, ndr) sembra arrivato alla sua deriva. O comunque al punto da generare repulsione. Sebbene sia - in parte e senza ritorno economico - proprio ciò che facciamo anche noi, corredando di #prayfor la nostra (migliore) immagine del profilo, e faticando ormai ad accettare di non intervenire anche quando non abbiamo niente da dire (la paura di essere tagliati fuori, appunto). Ma quanto questi gesti simbolici sostituiscono atti concreti? Quanti di noi, dopo aver condiviso i video virali, si informano realmente? Qual è la reale comprensione della questione? E ancora: quanto è vera condivisione empatica del dolore e non richiamo della propria attenzione su di sé? 

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"Stavo alla sfilata e pensavo alle bombe"

Senza dubbio non vogliono essere tagliati fuori dalla piazza quegli influencer che sentono l'urgenza di dover specificare di essere davvero "scioccati" (termine di cui si fa un abuso incondizionato di questi tempi, tra chi è "scioccato" per le proprietà scriventi di un ombretto e chi lo è di fronte alle catastrofi) rispetto alle immagini che arrivano dall'Ucraina. Quasi a voler giustificare la leggerezza della propria esistenza vissuta nel privé di un locale patinatissimo, due ore prima. E spesso fuoriluogo.

C'è stato ad esempio chi, come Valentina Vignali, 2.5 milioni di follower, è arrivato a dire "stavo alla sfilata avevo le immagini di queste bombe mentre vedevo le modelle camminare (...) Mi ha disturbato questa cosa". E ancora: "Lo so che non è colpa mia e non posso farci nulla, devo lavorare e la nostra vita va avanti, ma mi sento così strana". (Povera stella!). E ancora chi come Paolo Stella, 390mila follower, ha chiesto consigli su come gestire la propria dissociazione emotiva, poco prima di mettere piede alla sfilata di Armani. "Ho il cuore pesante e spaurito. Il contrasto fra quello che vivo e quello che succede nel mondo stride nella mia testa. Se qualcuno sa dirmi come fare, si accettano consigli". Un dolore certamente più gestibile di chi deve schivare una bomba, immaginiamo, ma evidentemente, secondo l'influencer, non è per niente indelicato sottolineare la sua legittima richiesta di aiuto.

Incommentabile poi Valeria Marini, con foto posata in abito da sera e l'hashtag #prayforukraine: prendersela con lei è come sparare sulla croce rossa. Prendersela con i quattromila che hanno messo like, meno. Virale anche lo scroll di Francesca Ferragni, che pubblica un post del Corriere sulla notizia dell'inizio del bombardamento e poi, appena un'oretta e mezza dopo, un succulento pezzo di crostata. Slurp! Ma anche: Bah. 

Polemica anche su chi "io non sono nessuno per parlare di guerra, non ne so niente, quindi vi parlo di creme per corpo" (esattamente in quest'ordine, sì). E lascia il link allo store online con tanto di codice sconto. Onesto? Ok ma stridente, agghiacciante. E, nell'epoca schizofrenica dei video lunghi appena trenta secondi, è un po' l'evoluzione - seppur priva, appunto, della pretesa di informazione - di quanto si diceva di quell'emotainment televisivo alla Barbara d'Urso in cui si passava, nello stesso contenitore, dal parlare delle ultime vip rifatte al caso di cronaca nera del giorno. Poi ci sono, ancora, quelli che consigliano i 5 profili da seguire per restare informati, "perché io non sono nessuno per parlarne". Che forse è la cosa piu giusta da fare. 

Mai fermarsi al video virale

Anche la divulgazione da parte di profili non specializzati (influencer, ma anche conduttori, attori, volti noti insomma) ha però le sue derive. Sì perché lo sforamento verso la pornografia del dolore è dietro l'angolo. La via di confine tra indagine e voyeurismo è chiaramente calcata dal vocabolario di alcuni post virali, veri e propri meme del dolore, accompagnati da aggettivi mirati del caso: "Il saluto straziante del padre ucraino", "Lo strazio delle madri che scrivono gruppo sanguigno sulle divise dei bambini". E, nel merito dei video virali, c'è poi un discorso sulla difficoltà nella verifica delle fonti, in cui è complicato inoltrarsi se non si hanno gli strumenti necessari (se si pensa che persino chi ha gli strumenti, come Rai Due, ha preso da Twitter il video di un videogioco facendolo passare come bombardamento ucraino. E' qui che finisce il merito del purché se ne parli, della condivisione a tutti i costi. Mai farsi bastare Instagram, mai fermarsi al tweet. 

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Parlare è (anche) mettersi in ascolto

Su TikTok si fa di peggio. Ma del resto tanto più forti sono le potenzialità di viralità (su questo la piattaforma cinese è forse la più efficace), quanto maggiori sono i rischi. Volendo bypassare chi riesce a mettere in piedi sketch anche a tema guerra, nelle scorse notti sono esplose dirette di presunti cittadini ucraini intenti a riprendere live il suono delle sirene del coprifuoco. Uno di loro aveva anche sistemato un altarino con l'icona della Madonna. Ma, tra i 15mila spettatori, c'è stato chi si è accorto che le sirene erano sempre le stesse e che l'immagine era fissa: insomma, in alcuni casi sembrava trattarsi di "fake". Cosa resta da fare, dunque? Più che condividere, informarsi. Più che parlare, mettersi in ascolto.

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