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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Moda, la rivoluzione eco è iniziata: maglie dalle bottiglie e calze dalle moquette

Il settore tessile ha diverse strade per ridurre gli sprechi e proteggere l’ambiente: dal riciclo delle plastiche si realizzano le fibre sintetiche ed è possibile ridurre l'uso dell’acqua nel ciclo produttivo. Alcuni marchi lo hanno già fatto

Come ci hanno insegnato a scuola, la rivoluzione industriale è iniziata dai tessuti: dalle prime macchine inventate per filarli e tesserli, e dai mulini ad acqua per lavorarli a partire dalle matasse di lana e cotone. Nulla vieta che una nuova rivoluzione eco-industriale possa avere nel tessile il suo nucleo di partenza. Già prima della guerra, negli anni ’30-40, precedendo di decenni l’era del consumo, erano state inventate le fibre sintetiche: filati creati chimicamente a partire dai derivati del petrolio. Oggi molti tessuti usati dall’industria dell’abbigliamento sono sintetici (acrilico, nylon, poliestere, elastan, lycra) e risultano sempre più simili, per consistenza e prestazioni, a quelli naturali. Finora questo sfruttamento su vasta scala di idrocarburi ha rappresentato un ulteriore problema ecologico, da sommare agli altri danni collaterali che l’industria tessile da sempre causa all’ambiente: principalmente l’utilizzo massiccio d’acqua e l’inquinamento conseguente quando la stessa acqua esce da fabbriche e da concerie, per rientrare nel ciclo naturale.

Esistono però diverse soluzioni per ridurre l'impatto del settore sull’ambiente, prima tra tutte il riciclo. Il poliestere, come dicevamo, è una delle fibre sintetiche più utilizzate in assoluto nelle produzioni di tessuti e vestiario: si presta bene ai capi sportivi, ma anche alle stoffe per tende, mobili e arredi. In realtà si tratta di un polimero che in altra forma conosciamo come Pet, la materia plastica utilizzata per bottiglie d’acqua e bibite varie. Ecco dunque la soluzione più logica: recuperare dai rifiuti commerciali e urbani le bottiglie vuote, scioglierle e ricavarne filamenti di poliestere da destinare all’industria tessile. 

Lo fa ad esempio Nike, che si vanta di aver “deviato” dalle discariche oltre due miliardi di bottiglie di plastica dal 2010 ad oggi; una quantità che, se messa in fila, farebbe il giro del mondo dieci volte, oppure riempirebbe 13.500 campi di calcio. Il riferimento al mondo del pallone non è casuale. Da tempo le divise professionali da calcio sono realizzate al 100% in poliestere e, da qualche anno, Nike pone l’accento sull’origine del materiale da riciclo addirittura nelle pubblicità commerciali indirizzate ai tifosi. Ultimamente, gli appassionati di Juventus, Barcellona, Inter, Arsenal e altri grandi club sponsorizzati dal colosso americano, sono stati informati che per realizzare ogni divisa (maglia e pantaloncino) indossata dai loro campioni,  sono state utilizzate 13 bottiglie di plastica riciclata. Un’efficace immagine pubblicitaria, ripetuta per ogni squadra di cui si reclamizzava la nuova maglia, mostrava una bottiglia che si smembra in un nastro filato; al capo opposto del filo prende forma la maglietta con i colori della squadra. Più recentemente la stessa Nike ha dato ampio risalto a una tecnologia chiamata Flyknit: un procedimento con cui vengono realizzate le scarpe sportive, sempre a partire da fibre sintetiche. In pratica le calzature vengono quasi “tessute” senza bisogno di tagli e cuciture come avviene tradizionalmente nei calzaturifici con i tagli di pelle cuciti insieme. Una tecnica che promette leggerezza, resistenza e, soprattutto, dal punto di vista ambientale, una forte riduzione degli scarti di lavorazione che l’azienda quantifica nell’80% in meno.

Ovviamente, anche le aziende che operano nel prêt-à-porter possono attuare strategie di risparmio energetico, di risorse, e utilizzo di materiali riciclati. È il caso di Levi’s che ha registrato diversi marchi legati a pratiche ecosostenibili. Con “Water Less” l’azienda statunitense identifica dal 2011 una linea di abiti in jeans stonewash, tra cui gli iconici 501, realizzati con un procedimento a secco che evita lo spreco di acqua. Da San Francisco fanno sapere che nel solo 2012 hanno prodotto ben 29 milioni di capi con questa tecnica, risparmiando oltre 360 milioni di litri d’acqua. 

Guardando entro i nostri confini vale la pena sottolineare un’eccellenza italiana: il progetto Econyl dell’azienda Aquafil di Arco, in provincia di Trento. Il gruppo si occupa di produzione di fibre sintetiche e in particolare di poliammide 6, ovvero: il nylon. Aquafil ha messo a punto un processo industriale per produrre nylon al 100% riciclato, partendo da materie prime di scarto che vengono rigenerate durante la lavorazione. In pratica vengono recuperati rifiuti di nylon come le reti da pesca, i tappeti, le moquette o gli scarti di produzione degli stessi oggetti. La rete di approvvigionamento del nylon “usato” è globale: Aquafil lo fa arrivare da Pakistan, Egitto, Thailandia, Norvegia e Turchia grazie ad accordi con enti pubblici e imprenditori privati, come quello stretto con il consorzio C.A.R.E. che, negli Stati Uniti, si occupa di recuperare dal mercato centinaia di migliaia di tonnellate di moquette usate ogni anno. Questi carichi arrivano allo stabilimento di produzione dell’Econyl che Aquafil ha impiantato a Lubiana, in Slovenia, con un investimento di 20 milioni di euro nel 2011. Il progetto si è avvalso della collaborazione di 20 ricercatori e di tre università, e in quasi tre anni ha riciclato 30.000 tonnellate di rifiuti. L’azienda ha calcolato che ogni 10mila tonnellate di Econyl prodotto, vengono risparmiati 70mila barili di petrolio che sarebbero necessari per produrre nylon “vergine”. Se si considera poi che la produzione annua mondiale di nylon è di 4 milioni di tonnellate, è evidente che recuperarne il più possibile, quando i prodotti giungono alle soglie delle discariche, rappresenti un notevole passo avanti per la salvaguardia dell’ambiente.

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