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Venerdì, 29 Marzo 2024
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Un buon cattivo maestro

A un mese dalla morte, alcune riflessioni su Alberto Asor Rosa, uno dei più grandi intellettuali della cultura di sinistra

Alberto Asor Rosa, scomparso lo scorso 22 dicembre 2022, è una delle maggiori e più complesse figure di intellettuale del ‘900, offrendo per tale motivo varie angolature dalle quali ‘leggerlo’ (sociale, politica, letteraria e infine ecologica), e dunque ‘definirlo’. Personalmente non ho avuto il privilegio di frequentare i suoi corsi universitari (non ho fatto l’università a Roma), ma mi è stato riferito che amava definirsi ‘un buon cattivo maestro’, in polemica con le etichette di un’epoca in cui questa sorta di scomunica veniva comminata a chiunque fosse in conflitto con il potere. I cattivi maestri, com’è ormai noto, erano quei «maître à penser che’ […] dietro il paravento delle teorie elaborate da [Herbert] Marcuse  […], al di là dei fatti penali, sono da ritenere moralmente più responsabili degli altri, vivono una vita tranquilla. Addirittura molti di essi sono inseriti nei gangli vitali della vita sociale e politica dell’Italia di oggi». (Francesco Di Giorgio e Giuseppe Gentile, La Fiat e gli anni di piombo in provincia di Frosinone, Ciolfi, 2013). Probabilmente Asor Rosa voleva smontare questo mantra che finiva per oscurare una parte fondamentale della storia politica italiana, di cui poco è stato raccontato, così come del femminismo, la cui versione odierna la si può riassumere in quattro aggettivi: «[…] baffute e castranti e separatiste e isteriche», come riporta un articolo web di Loredana Lipperini (La storia sbagliata dei cattivi maestri). Va ricordato che capofila dei cattivi maestri venne considerato un altro intellettuale di spicco, Antonio Negri, per anni considerato, assieme alle Brigate Rosse, uno degli ideologi della lotta armata. Non stupisce dunque che Asor Rosa, com’era proprio della sua natura polemica, si fosse intestato questa etichetta, che secondo me rappresentava una messa all’indice non solo della lotta armata, ma di qualsiasi voce che si differenziasse dal mainstream di quella stagione, certamente segnata da azioni scellerate che portarono ben presto il movimento antagonista, e la nuova sinistra nel suo complesso, a una spaccatura interna letale, e successivamente alla loro scomparsa e all’inizio del cosiddetto ‘riflusso’.

Ma tant’è: personalmente ribadisco che Alberto Asor Rosa - intellettuale ‘mai organico’, come ci teneva a sottolineare – si fosse dato questa definizione proprio per cercare di porre un argine alla deriva che caratterizzò quella fase della storia politica italiana. Del resto la sua personale storia politica, oltre che culturale, parla da sola: uscito dal PCI nel 1956 a causa delle posizioni assunte dal partito sull’invasione sovietica dell’Ungheria, vi rientrò nel 1972 sulla scia del nuovo corso di Enrico Berlinguer, opponendosi poi al suo scioglimento nel 1989, una data storica che praticamente mise fine a un’epoca di ‘terrore controllato’, e all’inizio di una di ‘terrore diffuso’, qual è appunto quella attuale.

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Le mie riflessioni dunque sono di carattere più emozionale che letterarie in senso stretto, sono cioè quelle di un lettore qualsiasi alle prese con una elaborazione culturale originale e spiazzante, così come fu spiazzante la scoperta di Scrittori e Popolo (1965), un libro che praticamente finì per distruggere tutte le mie teorie su certi giganti di allora, da Pasolini (al quale non fu risparmiato un giudizio assai ben articolato di ‘elegia e intimismo’), a Pavese, Pratolini, Cassola, Vittorini, Carlo Levi, Calvino), una sorta di ‘messaggio nella bottiglia’ che avrebbe, all’epoca, anticipato la Nuova Sinistra, e che irritò profondamente i vertici intellettuali del PCI: ma si trattava di una linea  teorica che risaliva a Gramsci, e che si riconnetteva al suo Letteratura e vita nazionale (1950). Come rileva l’autore stesso nel secondo paragrafo di Scrittori e massa, (significativa questa doppia definizione: da popolo a massa), «della nozione di popolo cercavo di dare un’illustrazione sommaria ma fedele, risalendo ai suoi interpreti e apologeti archetipici: […] Jules Michelet (Le peuple, 1846), […] Edgar Quinet, Victor Hugo, e molti altri, fino alla fondazione dell’Internazionale Socialista, […] che tanto ebbe anch’essa a risentirne almeno fino all’avvento di Marx e del marxismo». Senza ora entrare nel merito delle questioni politiche (e spiccatamente ideologiche) sollevate, oserei dire che quel saggio, in cui per la prima volta il termine ‘popolo’ assumeva una valenza, non dico assolutamente negativa, ma molto critica (oggi quel termine si è definitivamente guastato in ‘populismo’) - mentre fino ad allora mi era parso neutro, o per lo meno non così politicamente ‘pesante’ - si rivelò un qualcosa che avrebbe cambiato la mia visione della letteratura e della politica stessa. Erano anni di rivolgimenti sociali, culturali e politici di grande effervescenza che avrebbero svecchiato l’Europa (e l’America), facendo apparire all’orizzonte un mondo diverso e forse possibile. Erano gli anni, in Italia, della nascita del Gruppo ’63, della neo-avanguardia, di un modo totalmente diverso di concepire la scrittura e la letteratura, e nulla, dopo quella fase storica, sarebbe più stato come prima: l’Italietta della televisione censurata stava andando verso un gigantesco tsunami.

Asor Rosa lo si può considerare così il rappresentante, questo sì organico, di quel movimento. In Le due società. Ipotesi sulla crisi italiana (1977), emerge per la prima volta uno spaccato sociale in cui i protagonisti di quella che l’autore definisce ‘seconda società’ - i ‘non garantiti’ – e in un momento storico che ancora riusciva a offrire qualche alternativa di lavoro, Asor Rosa mise a nudo la crisi dell’università di massa, della precarietà dei docenti, degli studenti ‘sbandati, marginalizzati, sottoutilizzati’, e già intravvedeva quel futuro di miseria e povertà che è oggi diventato il nostro presente.

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Ugualmente importante è quello che potremmo definire il ‘seguito’ di Scrittori e popolo, Scrittori e massa (2015), nel quale l’analisi si focalizza su un dato fondamentale che caratterizza tutto il volume, una sorta di indagine degli autori e della più recente narrativa contemporanea italiana (o postmoderna, come ribadito nel sottotitolo). Anche qui Asor Rosa fa dei nomi, e non di second’ordine: tutti gli esponenti di ‘questa generazione’ (degli ultimi trent’anni) hanno, secondo il critico, spinto «ai margini con risolutezza, fino ad ignorarle, questione sociale e questione politica». Tali tematiche «così importanti […] escono di scena (qualche spunto residuale in Arminio, in Piccolo, in Pascale, ma nulla di veramente decisivo)». Queste materie (questione sociale e questione politica) in un contesto così «mediocre e degradato, com’è il caso della politica, non possono diventare materia di invenzione letteraria. Forse lo potrebbero se […] circolasse qualche robusta tempra di scrittore satirico». Di converso, «di amore ce n’è moltissimo: di un qualsiasi individuo (femmina, maschio, gay) per un suo partner; di grandi verso bambini di bambini verso grandi […]; di bambini tra loro. […] È una conferma […] - con l’assenza di tragedia e satira – del carattere normalizzante del racconto contemporaneo.» Asor Rosa in sostanza rileva che gli autori «partono dalla ‘constatazione’ della normalità, e lì trovano il bacino di ispirazione maggiore.» Sono personaggi e storie che non «pretendono neanche di incarnare una (presunta) verità generale, ma incarnano […] semplicemente se stesse. […] come non c’è questione sociale e […] politica, […] non c’è satira’, né c’è - pressoché mai – tragedia.» Nessun racconto finisce ‘male’, e secondo il critico, questo sarebbe dovuto al pubblico «sempre più di massa che non vuole che le ‘storie’ finiscano male», sia nella fiction che nella realtà. E non è finita: così come non c’è tragedia o conflitto, non c’è «neanche un grano di follia – quella follia senza la quale i tabù non vengono violati e la conoscenza non può spingersi entro certi confini, quelli già noti da tempo». L’ultimo elemento che caratterizzò Alberto Asor Rosa non poteva non essere quello ambientale: «L’asse passato-presente-futuro […] non è dissociabile a sua volta dalla componente ambientale, che rappresenta appunto il contenitore, per cui «non c’è un giusto ‘governo del popolo’ che non sia al tempo stesso un giusto e autentico ‘governo del territorio’. Le due cose sono incardinate l’una nell’altra […]»
È innegabile dunque che ci si trovi di fronte a un gigante della letteratura, e in senso più ampio, della cultura intesa nel suo significato totalizzante, un gigante di cui sentiremo la mancanza e la perdita.

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