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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Redazione

Quelli che si tagliano i capelli per l'Iran. E tre concetti da conoscere dell'attivismo online

C'era un tempo in cui ci affrettavamo a colorare di arcobaleno la nostra immagine del profilo di Facebook per allinearci alla nuova battaglia per i diritti Lgbt. Poi qualcosa è cambiato, poi è diventato démodé. C'era un tempo in cui non mettevamo in dubbio le intenzioni dell'influencer con la foto profilo dipinta di nero in favore del "Black Lives Matter". Poi qualcosa è cambiato, poi - più precisamente - sono arrivate le derive: sono arrivate le modelle in posa col cartello "No War" davanti alla Milano Fashion Week, tanto attente alla cotonatura dell'hairstyle quanto all'espressione dolente, tanto attente ad immortalare la sfilata di turno quanto la loro solidarietà a chi in Ucraina moriva sotto le bombe; sono arrivati gli attori in posa su Instagram, ben accorti a sfoderare l'hashtag più efficace e l'espressione più melodrammatica, in solidarietà delle donne afghane (vedi alla voce Alessio Boni). Ed è stato allora che l'amore per la catena di solidarietà ha lasciato il posto alla diffidenza nei confronti del protagonismo. 

Volendo rintracciare uno spartiacque, forse è stato proprio in occasione della guerra in Ucraina che abbiamo cominciato a nutrire reticenze verso l'attivismo online. Attivismo online che tanti traguardi ha portato a termine (su tutti, la sensibilizzazione ai diritti civili) e che oggi invece ci porta a definire una "sceneggiata" quella delle celebrità che si tagliano i capelli in solidarietà alle donne iraniane (sceneggiata sì, ma anche una infinita quanto creativa sfilza di sinonimi: pagliacciata, baracconata, recita, gesto salvacoscienza, opportunismo,pubblicità, smania di protagonismo, fino a "ipocrisia sinistrosa", se a tagliarsi la chioma sono Fabio Fazio e Luciana Littizzetto). Ma, prima di fare di tutta l'erba un fascio (o, se non altro, per fare questo fascio con cognizione di causa) è bene accorciare, oltre ai capelli, anche le distanze tra la nostra presunta malafede e la paventata buonafede degli influencer. Ovvero dare un nome alle cose, che è il primo modo per conoscerle, ovvero per ri-conoscere dove c'è da puntare davvero il dito. E sono quattro i concetti che abbiamo selezionato, non ancora presenti sul dizionario ma utili a spiegare il perché di tanta diffidenza.

L'attivismo performativo

Anzitutto, la notizia è che non servono tutti quei sinonimi, per dire ciò che si vorrebbe dire. Perché esiste una formula - poco nota al pubblico generalista ma molto nota a chi conosce i social media - che li riassume tutti. E qui veniamo al primo concetto, un concetto che spiega l'allerta che scatta di fronte a chi si videoriprende intento a sostenere una buona causa. Parliamo del cosiddetto "attivismo performativo", ovvero un attivismo virtuale e mosso da dinamiche di interesse, usato ed abusato in passato da più parti e da più volti. Nel caso degli influencer, infatti, aggregarsi ad una battaglia particolarmente sentita a livello sociale è garanzia per aumentare l'engagement (ovvero il coinvolgimento), i click, dunque la risonanza mediatica e dunque di riflesso il fatturato; nel caso delle celebrità è invece garanzia per ottenere un titolo sul giornale. Entrambe le categorie vivono di mediaticità, entrambe hanno quindi intrinsecamente un tornaconto personale. 

Al netto di qualsiasi buonafede, c'è dunque questa precisa perplessità dietro a chi dice, con sfiducia, che le attrici - da Claudia Gerini a Juliette Binoche - si stanno "aggiustando le doppie punte" in ricordo di Mahsa Amini, la giovane morta dopo esser stata arrestata dalla "polizia morale" iraniana perché il velo le lasciava scoperto il capo. C'è questa reticenza dietro a chi sta polemizzando su ciocche sì recise, ma scelte in modo da non compromettere l'harstyle ("tagliano quelle dietro la nuca", scrive qualcuno "potevano spingersi più coraggiosamente e dare un taglio netto di 10 centimetri, queste paladine dei diritti"). Pretestuosamente? Forse. Ma mentre in Iran si contano i morti, qui si contano i centimetri di capelli accorciati, e viene dunque da chiedersi se è peggio chi taglia i capelli o chi si sofferma sulla frivolezza di certi giudizi. 

Lo slack activism, ovvero l'attivismo per fannulloni

Un'insofferenza, quella verso gli attivismi virtuali, che, come si diceva, ha in realtà genesi recente. Fino a qualche tempo fa infatti anche noi facevamo, ed anche con un certo orgoglio, "Slack activism". Secondo concetto che incontriamo. E che è alla portata di tutti, ovvero di chiunque abbia cioè un account social. Frutto dell'unione tra le parole "slack" ed "activism", altro non è che l'attivismo per fannulloni, ovvero quello di chi, seppur in buona fede, si espone online a beneficio di determinate cause senza che però che questo gli costi troppa fatica, senza che questo comporti reali effetti nella realtà. Parliamo di chi vive di minima spesa e massima resa: massima gratificazione di aver fatto "il proprio", sebbene lo sforzo sia stato minimo, a volte anche nella comprensione intellettuale della causa. Vi viene in mente qualcosa? Vi suggeriamo il già citato ricordo delle foto profilo arcobaleno su Facebook durante il mese del Pride Month, che chiunque ha messo in prima persona almeno una volta dal 2017 ad oggi, oppure che ha sicuramente visto condividere da qualche amico. E che, nel caso della repressione iraniana, si traduce con chi asserisce  "Ora che Claudia Gerini si taglia i capelli sì che il regime iraniano avrà paura". 

Il virtual signalling 

Di connotazione ulteriormente negativa si tinge poi il cosiddetto "virtual signallism", terzo concetto. Un concetto che si distanzia dal caso specifico dell'Iran e che, in America, indica l'ostentazione di aderenza a valori che riscuotono un particolare consenso nella società del tempo. E' il tentativo di mostrare agli altri che sei una brava persona, attraverso l'esposizione di opinioni che siano accettabili e condivise da chi hai intorno, soprattutto via social. L'escalation avviene quando, come sempre, si mette di mezzo il profitto. Ed è qui che arriva un quarto concetto, il cosiddetto woke washing. Ovvero lo sfruttamento, da parte dei brand, di grandi temi di discussione pubblica al fine di far leva sull'animo del consumatore: un improvviso attivismo dietro cui si cela un interesse economico oppure, nel peggio dei casi, l'intenzione di dissimulare controversie aziendali. Perché ne stiamo parlando? Perché una dinamica di comunicazione simile può senz'altro applicarsi agli stessi influencer, che non sono brand ma che vivono di personal branding, ovvero di un posizionamente sul mercato rispetto ad una determinata fascia di pubblico (per rendere in fatti le parole: quando acquistiamo una t shirt di Chiara Ferragni, non stiamo acquistando la t shirt, bensì il sogno di essere come lei). 

Insomma, al netto di qualsiasi ipocrisia tra le quelle elencate, la certezza è che il purché se ne parli è sempre meglio del tabù. Che di Iran bisogna parlare il più possibile: anche, perché no, con le ciocche in mano. Pur nella consapevolezza che, se prima l'attivismo era sinonimo di sommossa e (ahinoi) spaccava le vetrine, oggi può essere sinonimo di performance e può servire (anche) a mettersi in vetrina. 

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