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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Film al Cinema

“Il male non esiste”, il dispotismo iraniano in un film audace e intenso

La recensione dell’ottavo lavoro di Mohammad Rasoulof che parla della pena di morte in Iran. Dal 10 marzo al cinema

Quattro storie diverse nell’Iran repressiva di oggi dominano il destino di quattro uomini uniti da una giacca blu che il dispotismo si ostina a non togliere più. Il blu scuro del soldato nel servizio militare.

È questo “Il male non esiste” (“Sheytan vojud nadarad”) scritto e diretto dal regista iraniano Mohammad Rasoulof, vincitore dell’Orso d’Oro alla 70ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

Sette lungometraggi e nessuno proiettato in Iran a causa della censura, arresti, reclusioni forzate e il divieto di lasciare il Paese perché accusato di “mettere in pericolo la sicurezza nazionale” e di “diffondere propaganda contro il governo”. Eppure, Mohammad Rasoulof non ha fermato la sua vena creativa. E “Il male non esiste” sembra essere il lungometraggio pronto a rivelare l’autocrazia iraniana con una sferzata sul moralismo antropico costretto a combattere la battaglia contro la violazione dei diritti umani. Perché “negli stati autoritari, l’unico scopo della legge è la conservazione dello Stato e non l’agevolazione e regolamentazione delle relazioni tra le persone” (Mohammad Rasoulof in una nota del suo film).

Leggiamo la trama del film premiato alla Berlinale 70, un vero e proprio gioiello che mette i brividi per tematica e attualità.

“Il male non esiste”, trama del film

Heshmat (Ehsan Mirhosseini) è un padre di famiglia 40enne che conduce una vita tranquilla. Amorevole con la moglie e con la figlia piccola capricciosa. Una casa confortevole, il pit stop in banca per ritirare puntualmente lo stipendio, e la sua ineguagliabile generosità e voglia di accudire le due donne della sua vita. Salvo che ogni notte esce di casa per prendere servizio al suo lavoro misterioso: uccidere i condannati a morte nel carcere, togliendo lo sgabello da sotto i piedi.

Pouya (Kaveh Ahangar) è un ragazzo che vuole vivere felice con la sua fidanzata. Novellino nel servizio militare, si ritrova a dover fare i conti con i suoi superiori che gli intimano di obbedire all’ordine e accompagnare il detenuto alla sua condanna a morte, contro la sua volontà. Un foglio di carta, una sorta di cartina disegnata dal compagno “di cella”, lo aiuta nella sua ribellione per evadere dalla prigione e respirare aria di libertà.

Javad (Mohammad Valizadegan) è un giovane soldato che riesce a ottenere tre giorni di licenza per tornare dall’amata e chiederle la mano. Tuttavia, scopre che il compleanno della fidanzata è segnato da un grave lutto e quello che doveva essere un giorno felice si trasforma in un funerale di un maestro che aveva insegnato tanto alla famiglia. Vedere la sua immagine in casa scatena in Javad un grande senso di colpa e tenersi dentro quella orribile confessione non è facile.

Bahram (Mohammad Seddighimehr) è un medico ex soldato che vive con la moglie. Un giorno decide di svelare alla nipote, un po’ occidentalizzata che vive con il padre e che studia medicina anche lei, un segreto doloroso che si porta dentro da vent’anni. Per trovare il perdono prima di morire.

“Il male non esiste”, la pena di morte secondo quattro punti di vista

È una potente e profonda riflessione morale “Il male non esiste”. Le quattro storie, legate dal dramma etico che vivono, scuotono la coscienza umana e creano una storia unica, devastante ed estremamente intensa. Con una scelta (auto)imposta che si ramifica nel bivio della vita: qual è la strada giusta? Il modello costrittivo dello Stato è tale da essere assoggettati come macchine che lavorano senza emozioni? Bisogna obbedire senza obiezioni o reagire può portare a una via di fuga, che non sia la morte?

E le dolenti risposte riverberano in “Il male non esiste”. Ogni storia è singolare e costruita come un episodio, con tanto di titolo, dello stesso script. Con un quasi cliffhanger che sospende il racconto, macabro com’è. E “Il Diavolo non esiste” di Heshmat è la prima storia che si immola al meccanismo repressivo prioritario dello Stato: tutto procede tranquillamente, la famiglia gode di un’ottima salute e si concedono qualche strappo alla regola per vedere la figlia felice. Ma è la notte il peggior incubo: una doccia per rianimarsi, un caffè versato, lo spioncino sollevato e il pulsante premuto per la più atroce delle morti. Come se fosse normale, perché è lo Stato a imporlo, senza porre domande se si vuole vivere dignitosamente. Stessa sorte, o quasi, in “Compleanno” per Javad, che ritrova l’amata fidanzata pagando il prezzo più caro. Perché tre giorni di libertà valgono più di una vita soppressa appesa a una corda. E per cosa poi: per il senso di colpa che fa perdere la ragione, e la futura moglie. Decisione giusta e sbagliata insieme che plasma un uomo senza più dignità. Perché lo Stato dispotico (ti) ha tolto tutto.

Diversa la condizione di Pouya in “Lei ha detto: lo puoi fare”. Con un fucile in mano, tenta la corsa alla libertà contro il meccanismo oppressivo del carcere e agisce secondo istinto. Dissentendo, correndo, respirando. Perché l’autodeterminazione costa tanto e ne vale della (tua) stessa vita. E che bello percepire la gioia di avercela fatta, di fuggire over the rules con l’omaggio italiano al brano musicale “Bella Ciao” in radio per iniziare una nuova vita lontano dai soprusi.

E “Baciami” con la storia di Bahram è l’ultimo centimetro del filo invisibile che vede la fine delle tre storie. La voglia di redimere i propri peccati con la morte che aleggia sul segreto più inconfessabile. Perché alla fine una scelta fatta in passato per salvare il futuro di una bambina vale più delle conseguenze psicologiche devastanti che per vent’anni non lo hanno lasciato in pace. Sarà che sotto il sistema autocratico alberga uno spiraglio di bontà umana che nessuna legge coercitiva può uccidere. Perché il male non esiste.

Volutamente e intensamente lento, con la cinepresa che indugia sui quattro uomini zoomando sulle loro azioni quotidiane, lo spaccato attuale sulla pena di morte e le sue dolorose conseguenze nel sistema politico iraniano si mescola alla sofferente fragilità umana che chiunque oggi sente dopo la visione del film. E come disse l’attore Jeremy Irons, Presidente di Giuria Berlinale 70: “Un film insieme poetico e devastante che pone ognuno di noi di fronte alla responsabilità delle proprie scelte”.
E al posto loro, noi che cosa avremo fatto?

Voto: 9

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