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Redazione

Respect, manca l’anima al biopic su Aretha Franklin

In principio, o quasi, fu Tina, biopic del 1993 sulla leggendaria Turner, che portò una giovanissima Angela Bassett a vincere un Golden Globe. Hollywood scopriva la forza dei biopic musicali, in grado di sbancare i box office e vincere premi a pioggia, grazie a divi stravolti da trucco e parrucco. In pochi anni abbiamo visto risorgere su grande schermo Ray Charles (Oscar a Jamie Foxx), Édith Piaf (Oscar a Marion Cotillard), Freddie Mercury (Oscar a Rami Malek), Judy Garland (Oscar a Renée Zellweger), Ma Rainey (nomination Viola Davis) e Billie Holiday (nomination Andrà Day), senza dimenticare Elton John magnificamente interpretato da Taron Egerton. E in attesa che diventino realtà anche le biografie cinematografiche dedicate a Madonna, Amy Winehouse e Whitney Houston, già in produzione, è ora arrivato il turno di Aretha Franklin, regina del soul interpretata da Jennifer Hudson in Respect, dal 30 settembre nelle sale d’Italia.

20 anni di Aretha

Deceduta nel 2018, la leggendaria Aretha aveva dato la sua benedizione a Jennifer Hudson, già premio Oscar al debutto dopo aver interpretato una diva Motown immaginaria, Effie White, in Dreamgirls. Scomparsa la regina del soul, Hudson si è rimboccata le maniche e ha deciso di produrre questo didascalico biopic esageratamente classico nella sua composizione, raccontando circa 20 anni dell’esistenza di Aretha. Dal 1952 al 1972. Nel mezzo la regista Liesl Tommy ha edulcorato e pennellato i lineamenti di una vita segnata da uno stupro in tenerissima età, perché Franklin aveva 10 anni appena quando venne violentata in casa sua, senza mai entrare nei dettagli. Scopriamo che Aretha ha due bimbi piccoli, viene fatto intendere che possano essere stati generati proprio da  quello stupro, ma la vera Franklin li ebbe separatamente. Il primo a 12 anni, il secondo a 14. La totale mancanza di trucco, poi, non aiuta nel determinare il tempo che passa né l’età dei personaggi, praticamente identici dall’inizio alla fine del film.

Cosa funziona e cosa non funziona

Quel tragico episodio vissuto in tenerissima età genera demoni interiori che Aretha faticherà a gestire nel corso dei decenni successivi, contraddistinti da figure maschili per lei devastanti. Il padre predicatore battista famoso a livello nazionale che la ritiene di sua proprietà e prova a tenerla al guinzaglio, e Ted White, il primo vero amore che la picchia ripetutamente. Nel 1956, a 14 anni appena, il primo disco, ma per quasi un decennio e ben nove album Franklin fatica a trovare il proprio suono, la propria voce. Non ha mai generato una hit, la Columbia la scarica. L’anno della svolta è il 1967, quando Aretha diventa The Queen of Soul dopo aver riarrangiato Respect di Otis Redding. Da quel momento in poi diventa icona nazionale, paladina dei diritti, volto di un’intera comunità che prima marcia insieme a Martin Luther King e successivamente piange la sua morte.

In questi 20 anni da condensare in 140 minuti Liesl Tommy stenta a trovare la quadra, spaziando tra padre padrone, dolce madre precocemente scomparsa, amori complicati, ambizione sfrenata, battaglie di piazza per la giustizia sociale, concerti, gelosie, demoni da sconfiggere, eccessi alcolici, resurrezione al cospetto del gospel e brani da incidere. Il tutto esageratamente addolcito, smussato, annacquato, tendenzialmente banalizzato in fase di scrittura. Come se Aretha fosse semplicemente mentalmente instabile, tanto da non riuscire a gestire la pressione, la popolarità, i rapporti di coppia. Respect segue il fortunato esempio del mediocre Bohemian Rhapsody presentandosi al pubblico come un gigantesco juke-box cinematografico,  un musicarello d’America sulla più famosa cantante di tutti i tempi, giocando facile sulle note dei più famosi pezzi di Aretha, tutti straordinariamente cantati da Jennifer Hudson, sorprendentemente al lavoro di sottrazione nell’interpretare l’iconica e vulnerabile artista. Una Hudson composta, a tratti anche troppo misurata, priva di quella grinta che finalmente esplode solo quando è sul palco, o al piano, per cantare, mentre attorno a lei Liesl Tommy fatica a raccontare il turbolento panorama sociale e politico dell'America degli anni ’60.   Jennifer ha una voce portensosa ed è eccellente nel ricreare le movenze di Franklin, dalla ciondolante camminata alla postura sul palco, ma Aretha aveva una presenza scenica irreplicabile, un fuoco dentro in Respect quasi del tutto assente.

"Respect", Jennifer Hudson è la regina del soul Aretha Franklin

La disordinata vita di Aretha diventa così troppo dannatamente ordinaria,  mentre l’anima del film, quel soul che ha reso immortale la cantante, non emerge, al cospetto di un’opera che amplia eccessivamente il periodo trattato, rimarcando esageratamente le parti drammatiche e volando alto quasi unicamente sulle parti musicali. Quando Jennifer canta, e soprattutto quando prende forma la genesi di un brano, tra scrittura, arrangiamento ed esecuzione, Respect si risveglia dal torpore che lo contraddistingue, chiudendo in bellezza con la ricostruzione del docu-concerto Amazing Grace, nel 1972 diventato l’album gospel più venduto di tutti i tempi e all’epoca ripreso dal grande Sidney Pollack. Privatasi finalmente da orpelli e lacciuoli, Liesl Tommy cede spazio alla macchina in spalla in stile super 8, librandosi al cospetto di uno dei più famosi inni cristiani in lingua inglese del Settecento. Ma ormai è troppo tardi.

Voto: 5

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