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Giovedì, 25 Aprile 2024
l'intervista a today

Domenico Iannacone: "La guerra, le periferie, la politica e le persone che si salvano da sole"

Un viaggio tra le pieghe dell'umanità vulnerabile ma resistente. Tra chi vive ai margini delle città, da Palermo a Roma. E' quello di "Che ci faccio qui", al via su Rai Tre con la conduzione del giornalista molisano. Inchieste morali contro il moralismo da talk show

"Una volta, in occasione un servizio che avevo girato da inviato, gli operatori tagliarono alcune pause in fase del montaggio. E da lì presi una decisione che avrebbe cambiato per sempre il mio lavoro. Mi trovavo a Verona, ero lì per raccontare la vicenda di quei sindaci che volevano spazzare via i lavavetri per decoro e, ad un certo punto, mi si avvicinò una ragazza che stava facendo l'elemosina: mi guardò dritto negli occhi e mi chiese se, facendolo, mi stesse effettivamente dando fastidio. Io rimasi in silenzio, perché non ero pronto alla domanda. Perché mi sentivo parte in causa. Ebbene, in quella sua rivendicazione, ed in quel mio silenzio lungo trenta secondi, c'era tutto il racconto. C'erano tutte le parole del mondo. Eppure, quella parte non andò in onda. Fu allora che decisi che avrei cominciato a raccontare storie". 

Fu allora che nacque la tv di Domenico Iannacone. Sui generis. Vera e propria contronarrazione rispetto al linguaggio corrente. Nei tempi moderni della televisione gridata dagli animali da dibattito - quella in cui le arene sono costruite attorno alla cronaca, persino attorno alla guerra ad oggi, usata come bestia sacrificale sull'altare dell'Auditel - l'alternativa del giornalista ed autore molisano è votata al piano d'ascolto e non al vociare dell'opinionismo. Nell'era della polarizzazione dei social network e del moralismo organizzato in tifoserie da talk show, il suo "Che ci faccio qui", al via sabato 9 aprile alle 21.45 su Rai Tre, è ritorno alle origini, alla "carne viva", come la chiama lui: all'inchiesta morale che incoraggia alla riflessione collettiva. È dunque politica sì, ma priva di ideologia.

E al centro ci sono le storie di chi, spesso oggetto del racconto mediatico, può finalmente tornare soggetto, raccontandosi in prima persona. Il suono, finalmente, dei loro silenzi. 

Cinque prime serate, altrettante periferie. Da Palermo a Roma a Firenze. Un viaggio tra le pieghe dell'umanità vulnerabile ma resistente. Tra legalità, immigrazione, accoglienza. Qual è la meta comune, questa volta?

"Il ritorno alle relazioni. Credo che abbiamo dimenticato che cosa significhino. Non ne vedo più. Né tra popoli, né tra cittadini. Con le periferie, ad esempio, non abbiamo creato un rapporto alla pari: ci limitiamo a dialogare tra persone che stanno dentro e fuori dai ghetti. Pensiamo al caso di Taranto, ad esempio. Ne parliamo in termini di lavoro, di denuncia, perché lì si concentra l'intera produzione di acciaio e la salute è soggiogata al dramma del ricatto occupazionale. Ma ne parliamo con pietismo, mai con l'intento di instaurare una relazione pura con chi la abita". 

Più che alle buone intenzioni di chi guarda però, questo è un compito che attiene alle istituzioni. 

"Non entro nel dibattito della agenda politica, ma è proprio il racconto di persone e luoghi ad essere politica. Credo nel valore della testimonianza. E non credo al ruolo salvifico della politica, bensì alla dimensione di salvezza reciproca. Penso che alla fine le persone si salveranno tra loro".

È questo il punto di forza della periferia, in mezzo a tante vulnerabilità?

"Nella prima puntata, torno dopo cinque anni a Palermo. Riallaccio i fili con esistenze che avevo conosciuto in passato: lì avevo incontrato alcuni ragazzini che si allenavano a fare rap con Christian Picciotto, un artista che canta di degrado e di riscatto. Ebbene, oggi alcuni di loro sono diventati padri ed hanno compagne di quindici anni. Questo ti fa capire quanto, in periferia, tutto sia diverso dalla nostra percezione del mondo: noi, prima di fare una scelta, dobbiamo essere sempre supportati e protetti, avere una casa, un lavoro. Lì, invece, in un posto in cui la difficoltà è natura, tutto può essere fatto: anche mettere al mondo dei figli". 

La capacità alla resistenza. 

"L'abitudine ad essere ogni giorno precario, a non avere nulla di scontato. L'accelerazione: il quartiere non cambia, così come non ne cambiano le difficoltà, la precarietà o il pericolo di prendere una brutta strada, ma c'è una vitalità che altrove non c'è ed è questa una forza che sta dentro. Che vive dentro queste persone. E che è la forza della vita".

Quali strascichi ha lasciato la pandemia, in periferia? 

"Penso ad una battuta di Mirko Frezza, che incontro invece a Roma e che è un uomo dal passato turbolento ed oggi attore impegnato nel quartiere con la sua associazione. «Qua non è cambiato nulla», mi ha detto «eravamo poveri prima e lo siamo anche adesso. Mangiavamo a stento prima e mangiamo a stento adesso». Insomma, è come se quella parte non li avesse proprio attaccati. Noi ci siamo sentiti intaccati nelle nostre sicurezze piccolo borghesi, ma lì questo non è successo. Lì è rimasto tutto così, basico".

Quanta distanza c'è tra il racconto mediatico che si fa dell'immigrazione e il pragmatismo dell'integrazione sul campo? 

"Con la seconda puntata ci casco proprio dentro: è "Nelle tue mani". E determina l'idea del fare e non solo del parlare. In questi anni abbiamo assistito ai pro e ai contro dell'accoglienza. Ed oggi le compagini politiche si stanno già scontrando sul tema della differenziazione tra accoglienze, vista l'accelerazione del fenomeno dovuta alla guerra. Io incontrerò personaggi antitetici alla narrazione classica dell'immigrazione, ovvero quella discussa nei talk show televisivi e in maniera sterile in Parlamento. Ne parlerò, a Trieste, con Lorena Fornasir, psicologa in pensione che cura ogni giorno i corpi martoriati di esseri umani costretti a marciare per mesi lungo la rotta che dalle periferie del mondo giunge nel cuore dell’Europa".

Anche Taranto continua ad esistere, nonostante sia scomparsa dal dibattito mediatico. 

"Io voglio essere come una sentinella, contraria al racconto della cronaca spicciola che muore in poco tempo. La mia intenzione è pormi al contrario di come si pone la tv. Mi pongo dall'altra parte e scopro che c'è un mondo da raccontare. Penso spesso a ciò che disse Vittorio De Sica nel merito di Ladri di Biciclette: «Perché devo andare a cercare cose straordinarie quando le più interessanti mi passano accanto?». A quale giornale avrebbe potuto interessare scrivere che ad un povero disgraziato hanno rubato la bicicletta? E invece in quella bici rubata c'è una storia di una forza tale che assurge a collettiva. Un fatto minimo che però, siccome viene reiterato, perde generalmente di valore. Perché così succede: ci abituiamo a tutto. Anche alla morte. Anche alle immagini di guerra". 

A proposito di guerra e di realismo, divampa il dibattito sulla domanda se si possa prescindere o meno dal mostrare le immagini atroci, crude, che arrivano dall'Ucraina. C'è chi parla di pornografia del dolore, c'è chi ritiene siano necessarie. 

"Io credo nel valore della testimonianza. Quando, alla fine della seconda guerra mondiale, gli alleati arrivarono nei campi di concentramento e scoprirono cosa c'era dentro, chiamarono i cineasti. Ci lavorò Hitchcock. Il problema è che se ne fa spettacolarizzazione. A volte basterebbe soltanto proporre le immagini, non servirebbe alcun commento. Io non vorrei neanche la voce del giornalista. Ho visto in questi giorni una delle cose più detestabili viste in tv negli ultimi anni". 

Cioè?

"Era stato colpito un ufficio postale. E c'erano tre corpi a terra, distesi. C'era anche un ragazzo che piangeva e c'era, lì vicino, un giornalista che gli si è avvicinato perché voleva che gli raccontasse cosa stesse facendo". 

L'idea di raggiungere le zone di guerra da inviato è una ipotesi?

"Mi piacerebbe arrivarci dopo, per comprendere meglio. Dovrei arrivare a sangue freddo".

Quali sono le prossime storie a cui lavorare?

"Il ciclo delle stagioni della vita. E' una cosa che voglio fare sottoforma di racconto intrecciato e collettivo, dalla nascita alla morte. Compresi gli elementi etici, come la scelta di morire". 

Oltre a "Che ci faccio qui", anche un podcast, al via il 19 aprile per RadioDue. Uno strumento che ben si confà alla narrazione intima delle tue storie. 

"Si chiama Il sillabario delle emozioni. Sei puntate incentrate sull'immersione nelle storie che ho incontrato in questi anni. Riprendo queste relazioni strutturandole anche con miei pensieri. Accosto Michele, uomo costretto a dormire in macchina, con Ladri di biciclette. Accosto il 1948 e il 2016. Non è cambiato nulla. La disperazione e la solitudine sono sempre quelle". 

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