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Giovedì, 25 Aprile 2024
La storia / Iran

Il professore e medico "italiano" condannato a morte in Iran

È stata fissata l'esecuzione di Ahmadreza Djalali, scienziato e docente che ha lavorato anche in Italia. La storia, le accuse, gli appelli, e perché le minacce di morte del regime di Teheran nei suoi confronti potrebbero nascondere un "crudele gioco politico" che coinvolge più Stati. Con un'intervista a Tina Marinari di Amnesty International

Il cappio intorno al collo di Ahmadreza Djalali potrebbe stringersi inesorabilmente tra poche ore, sabato 21 maggio. O forse no, non ancora, perché qualcuno in Iran, dove l'uomo è detenuto da sei anni nel carcere di Evin a Teheran, sta giocando con la sua vita, come denunciano diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani. Ahmadreza Djalali, 50enne di origini iraniane, è scienziato, docente e ricercatore in medicina dei disastri e assistenza umanitaria. Passaporto iraniano e svedese, nel 2009 ha lasciato il suo paese per un dottorato di ricerca al Karolinska Institutet in Svezia, dove risiedeva prima che il suo calvario cominciasse. Ha poi lavorato all'università degli studi del Piemonte orientale, a Novara, e in Belgio, a Bruxelles.

È stato condannato a morte e a pagare 200mila euro di multa per "corruzione sulla terra" ("efsad-e fel-arz"), dopo un processo-farsa davanti alla sezione 15 della corte rivoluzionaria di Teheran. L'accusa nei suoi confronti è di aver lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare queste accuse. Il giudice non ha fornito una copia del verdetto, che è stato letto in tribunale il 21 ottobre 2017 in presenza di uno dei legali di Djalali.

Aggiornamento - Condanna confermata: Djalali sarà impiccato

Ahmadreza Djalali, che ha insegnato in diverse università in Belgio, Italia e Svezia, era in viaggio in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz, quando è stato arrestato dai funzionari del ministero dell'intelligence di Teheran, nell'aprile del 2016. Dopo l'arresto, per dieci giorni nessuno ha informato la sua famiglia sul luogo di detenzione. Il 50enne è stato tenuto in una località sconosciuta per una settimana, prima di essere trasferito alla sezione 209 del carcere Evin di Teheran, dove è stato detenuto per sette mesi, di cui tre in isolamento. Successivamente è stato spostato nella sezione 7 della stessa prigione.

Djalali ha raccontato che, mentre era in isolamento, gli è stato negato l'accesso a un avvocato: è stato costretto a fare "confessioni" davanti a una videocamera leggendo dichiarazioni scritte da altri. L'uomo sarebbe stato sottoposto a forti pressioni, con tortura e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte anche verso i figli che vivono in Svezia e la sua anziana madre che vive in Iran. Tutto questo per fargli "confessare" di essere una spia.

"Sono uno scienziato, non una spia"

Ahmadreza Djalali nega le accuse e sostiene che siano state fabbricate ad arte dalle autorità. In una lettera dell'agosto del 2017 scritta dalla prigione di Evin, afferma che sono state le autorità iraniane nel 2014 a chiedergli di "collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell'Ue. La mia risposta è stata "no" e ho detto loro che sono solo uno scienziato, non una spia". Il ricercatore ha detto di essere stato trattenuto esclusivamente a causa del suo rifiuto di utilizzare i suoi legami accademici con le istituzioni europee per spiare per conto delle autorità iraniane.

Il 24 ottobre 2017, durante una conferenza stampa con i giornalisti, il procuratore generale di Teheran, Abbas Ja’fari Dolat Abadi, ha detto - senza specificare il nome di Ahmadreza Djalali - che "l'imputato" aveva tenuto diversi incontri con l'agenzia di intelligence israeliana Mossad, e che forniva loro informazioni sensibili su siti militari e nucleari iraniani in cambio di soldi e della residenza in Svezia. Accuse infondate, secondo la sua famiglia e secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani.

Come sta oggi Ahmadreza Djalali? Cosa sta accadendo davvero in Iran? Lo abbiamo chiesto a Tina Marinari, coordinatrice delle campagne di Amnesty International Italia, che segue il caso dall'inizio. La ong continua a chiedere alle autorità iraniane di annullare la condanna a morte dello scienziato e di consentire il ritorno immediato di Djalali a Stoccolma, dove risiedono la moglie Vida Mehrannia e i due figli che non vede da sei anni.

A che punto è il caso di Ahmadreza Djalali? L'impiccagione del ricercatore detenuto in Iran è prevista entro il 21 maggio, oppure l'Iran ha sospeso l'esecuzione?

"Siamo nella stessa situazione in cui eravamo nel 2017 e poi di nuovo nel 2020: esecuzione annunciata e poi probabilmente rimandata. Una tortura continua nei confronti di Ahmadreza Djalali e di tutta la sua famiglia. Il 16 maggio 2022, il portavoce del ministero degli affari esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, ha ribadito durante una conferenza stampa che la condanna a morte di Ahmadreza Djalali è definitiva, ma ha riferito che la sua applicazione potrebbe essere ritardata. Ha detto che "è stata avanzata una richiesta per applicare la sentenza in un altro momento, che è allo studio. La magistratura agirà di conseguenza". Non ha chiarito chi ha fatto la richiesta. Continuiamo a tenere alta l'attenzione così da poter scongiurare il peggio".

Come sta Ahmadreza oggi? Avete notizie sulle sue condizioni di salute?

"È in pessime condizioni. Vivere 6 anni rinchiuso in una cella, che se in isolamento diventa una scatola di 180 centimetri per 180 senza finestre, sarebbe insopportabile per chiunque. Abbiamo saputo da contatti informali che la sua condizione di salute, sia fisica che mentale, si è deteriorata ulteriormente. Soffre di numerose malattie come anemia, gastrite, calcoli alla cistifellea, paralisi locale. Ha perso più di 20 kg da quando è stato arrestato. Soffre anche di insonnia, ansia, attacchi di panico e grave depressione. La sua situazione psicologica è peggiorata dopo la morte di sua madre. I funzionari non gli hanno permesso né di parlarle né di incontrarla in ospedale, né di salutarla alle sue esequie. A tutto questo va aggiunto che è da novembre 2020 che i suoi familiari non hanno un contatto telefonico con lui, così da aggiungere sofferenza ad altra sofferenza: un'ulteriore forma di tortura che viene inflitta volutamente. Ci è stato inoltre riportato di un pestaggio subìto in infermeria, dove si era recato per ricevere dei medicinali poche settimane fa".

Ha subìto tortura?

"L'isolamento prolungato a cui è stato sottoposto è una forma di tortura. Per non parlare, poi, delle minacce di morte anche verso i familiari, dell'accesso mancato a un avvocato e della confessione estorta, come da lui stesso raccontato".

Nel gennaio 2017, Amnesty International ha lanciato una campagna per salvare la vita di Ahmadreza Djalali. Cosa è stato fatto in concreto?

"Alla conferma della condanna a morte, Amnesty International ha attivato tutto il movimento a livello globale e, esattamente come accade in questi giorni, sono state raccolte migliaia di firme, inviati centinaia di appelli alle ambasciate iraniane nel mondo. Decine di manifestazioni sono state organizzate in tutta Europa. Abbiamo sollevato il suo caso in tutti gli ambienti istituzionali nazionali e internazionali. In particolare, le sezioni italiana, belga e svedese hanno condiviso ogni singolo passo insieme alle tre università europee in cui Ahmadreza ha insegnato. Oltre 130 premi Nobel hanno chiesto il suo rilascio, così come l'alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani".

Djalali lavorava anche a Novara, era residente in Italia, aveva deciso di diventare cittadino italiano ed era idoneo, ma non ha ancora avuto la cittadinanza italiana. Qual è il ruolo dell'Italia in tutto questo? Il governo italiano ha fatto qualcosa?

"Anche rappresentanti delle istituzioni italiane, sia a livello locale che nazionale, si sono esposti per chiedere il rilascio di Ahmadreza Djalali. L'università di Novara e tutti i colleghi di Ahmadreza sono da sempre al suo fianco e al fianco della sua famiglia. Ma da quanto emerge dalle nostre analisi, sono il Belgio e la Svezia ad esser stati maggiormente sollecitati dalle autorità iraniane. Emergono sempre maggiori prove, secondo Amnesty International, che le autorità iraniane stiano commettendo il crimine di presa di ostaggi nei confronti di Djalali. Ricerche a analisi dettagliate hanno portato Amnesty International a temere fortemente che le autorità iraniane stiano minacciando di mettere a morte Djalali per costringere Belgio e Svezia a consegnare due ex funzionari iraniani e a spingere questi due Stati, tra gli altri, a non avviare ulteriori procedimenti giudiziari nei confronti di funzionari di Teheran. I due ex funzionari sono Asadollah Asadi, un ex diplomatico iraniano che sta scontando una condanna a 20 anni in Belgio in relazione a un attentato poi sventato in Francia; e Hamid Nouri, ex dirigente penitenziario sotto processo in Svezia per la sua presunta partecipazione ai massacri del 1988 nelle prigioni iraniane, contro il quale la sentenza è attesa il 14 luglio".

Se escludiamo la Cina, che non dà nessun dato ufficiale sulle condanne a morte eseguite, l'Iran è il primo Stato al mondo per numero di esecuzioni capitali: sono state più di 250 nel 2021 e almeno 46 solo nel primo mese del 2022, anche se non tutte le esecuzioni vengono comunicate ufficialmente e le organizzazioni locali per i diritti umani ricostruiscono con enormi difficoltà quelle che avvengono lontano dai riflettori. C'è speranza per Ahmadreza o l'Iran sta giocando con la sua vita? 

"È difficile fare previsioni, ma quello che è certo è che le autorità iraniane stanno usando Djalali come pedina di scambio in un crudele gioco politico, intensificando le minacce di metterlo a morte come rappresaglia se le loro richieste non saranno soddisfatte. Stanno cercando di deviare il corso della giustizia sia in Belgio che in Svezia e per questo dovrebbero essere indagate per il crimine di presa di ostaggi. Le crescenti minacce a partire dal 4 maggio 2022 riguardo l'esecuzione di Ahmadreza Djalali coincidono anche con la conferma della condanna di Asadollah Asadi a 20 anni di reclusione in appello il 5 maggio 2022. Nella conferenza stampa del 16 maggio 2022, in cui il portavoce del ministero degli affari esteri iraniano ha suggerito la possibilità che l'esecuzione di Ahmadreza Djalali sia rinviata, è stato anche chiesto al portavoce di fare chiarezza sulla possibilità di un accordo per scambiare Ahmadreza Djalali con Asadollah Asadi. Amnesty International ritiene che gli annunci vaghi e contraddittori delle autorità iraniane e le loro comunicazioni con i media a partire dal 4 maggio 2022 siano un riflesso della loro duplice strategia nel caso di Ahmadreza Djalali. La strategia coinvolge alcuni funzionari che annunciano che la sua condanna è definitiva e in procinto di essere eseguita, e altri funzionari o organi statali, compresa la stampa ufficiale, che suggeriscono che c'è spazio per i negoziati e minacciano di mettere a morte Ahmadreza Djalali come rappresaglia per richieste non soddisfatte dell'Iran".

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