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Venerdì, 19 Aprile 2024
La minaccia / Cina

La Cina è pronta a "schiacciare" Taiwan se riceve un aiuto dagli Usa

Sulle sorti di Taiwan va in scena un botta e risposta tra Pechino e Washington

Arrivano due notizie dall’Asia orientale, una buona e una cattiva, e riguardano il rapporto tra Cina e Usa.
Anzitutto, la buona notizia. Nel weekend c’è stato un contatto diretto tra il ministro della Difesa cinese, il generale Wei Fenghe, e il suo omologo americano Lloyd Austin a margine del forum Shangri-La, a Singapore, che riunisce tutti gli attori di primo piano nel campo della sicurezza e della difesa nella regione Asia-Pacifico. Il faccia a faccia, più lungo di quanto si attendeva, è arrivato a distanza di un anno, dopo che i responsabili della Difesa delle due potenze avevano avuto un colloquio telefonico nel maggio del 2021.

Perché la notizia dovrebbe interessarci? Il dialogo bilaterale è arrivato in un momento in cui si registrano i peggiori rapporti tra Washington e Pechino - ormai ai minimi storici - incrinati anche per la posizione “neutrale” della Cina sulla guerra russa in Ucraina.

Ora, la notizia cattiva. I toni del dialogo tra Wei e Austin sono stati tesi e si sono inaspriti sul caso di Taiwan, l’isola rivendicata da Pechino. Wei ha avvisato che la Cina “non esiterà a iniziare una guerra contro Taipei se questa dovesse dichiararsi indipendente”, ribadendo l’intenzione di “difendere la sovranità e l’integrità territoriale a tutti i costi”.

Il generale di Pechino non ha lasciato spazio a dubbi. "Se qualcuno osa separare Taiwan dalla Cina, non esiteremo a combattere", ha detto Wei. "Lotteremo a tutti i costi e lotteremo fino alla fine”. Secondo la narrativa cinese, Pechino mira alla riunificazione dell’isola alla “madrepatria” che deve avvenire inizialmente attraverso metodi pacifici. Solo in caso di minaccia militare, Pechino è disposta ad adottare una risposta “rapida e decisa”. E, come ha chiarito Wei, questa sarà militare.

La minaccia statunitense per la Cina

La Cina si sente infatti accerchiata dalle alleanze multilaterali che mirano a contenere l’espansione cinese nell’Indo-pacifico. Dal Quad all’Aukus, i formati sicuritari regionali a guida statunitense starebbero danneggiando la pace e la stabilità regionale: è questo, in sintesi, il pensiero del ministro della Difesa cinese, che non ha digerito le accuse mosse qualche ora prima dall’omologo statunitense, che ha definito "provocatoria e destabilizzante" l'attività militare della Cina vicino a Taiwan. Il capo del Pentagono ha delineato il raggio di azione delle alleanze militari nate nell’Indo-pacifico, giustificata proprio per l’”allarmante” dell’attività navale cinese nella regione. 

Al centro delle tensioni c’è soprattutto la vendita all’esercito taiwanese di armi navali statunitensi del valore di 120 milioni di dollari, ma anche la posizione degli Stati Uniti sempre più ambigua sulla politica dell’”unica Cina”. La Casa Bianca ha continuato a vendere le armi a Taiwan, nonostante nel 1979 gli Usa abbiano posto fine ai legami formali con il governo dell’isola e abbiano esteso il riconoscimento diplomatico alla Cina. La legge statunitense prevede anche che Washington sia pronta a "resistere a qualsiasi ricorso della forza" contro Taiwan, lasciando aperta la possibilità che l'esercito americano possa intervenire se la Cina tentasse di invadere l’isola.

La virata “offensiva” del Giappone

Il convitato di pietra al vertice sulla sicurezza Shangri-La Dialogue a Singapore è stato quindi Taiwan. Da Taipei si sono sollevate voci di dissenso per le parole espresse dal ministro della Difesa cinese. Il ministero della Difesa di Taiwan ha definito assurde le dichiarazioni del generale Wei ha ringraziato gli Stati Uniti per il loro sostegno militare.

Alcuni dei ministri dei Paesi dell’Indo-pacifico presenti al forum hanno adottato un approccio leggermente più morbido nei confronti della Cina, sollevando preoccupazioni sul comportamento cinese in modo meno diretto.

Il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha sottolineato l'importanza della pace e della stabilità attraverso lo stretto di Taiwan e nel suo discorso durante il forum di Shangri-La è stato attento a non essere troppo critico – almeno esplicitamente - nei confronti della Cina. Il premier nipponico, che vuole assumere un ruolo da protagonista di fronte alle minacce regionali (rappresentate sia dalla Cina, che dalla Corea del Nord), è pronto a rilanciare su un tema considerato tabù fino a qualche decennio fa: raddoppiare, fino al 2 per cento, la spesa militare nazionale per l’acquisto di armi d’attacco e non solo di autodifesa. L’articolo 9 della Costituzione giapponese prevede infatti che l’impianto delle forze militari nipponiche sia difensivo e non offensivo. Ma il controverso articolo, considerato anacronistico a fronte dei cambiamenti dell’ordine internazionale, potrebbe essere revisionato o abrogato dall’attuale formazione di governo conservatore.

Tokyo punta comunque in alto. Il governo giapponese consentirà l’esportazione di caccia, missili e altre armi in 12 paesi, tra cui India, Australia e alcune nazioni europee e del sud-est asiatico. La nuova virata militare del Giappone si concretizza in una revisione di un principio formulato nel 2014, secondo cui erano consentite le esportazioni verso i paesi che non sviluppano armi congiuntamente con il Giappone solo di attrezzature militari da impiegare in missioni di salvataggio, trasporto, allerta, sorveglianza e sminamento. La speranza per i funzionari di Tokyo è di approfondire una cooperazione militare e sicuritaria con gli alleati della regione per arginare l’assertività cinese. Da più parti si evidenzia un’esigenza: evitare che Pechino diventi più forte nell’Indo-pacifico.

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