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Giovedì, 28 Marzo 2024
La Cina si prende Trieste?

Che fine ha fatto la Nuova Via della Seta cinese

Già prima della pandemia di Covid-19 la Cina ha rivisto la sua politica di investimenti massicci. Ora il gigante asiatico sembra abbracciare forme di collaborazione economica meno invasive

Dopo anni di tensioni e incertezze, Berlino avrebbe deciso e apre la porta a Pechino. La Cina, attraverso l'impresa statale Cosco (China Ocean Shipping Company), avrebbe acquistato il 24,9% delle quote di uno dei quattro principali terminal del porto di Amburgo, tra i più grandi di Europa, da Hamburger Hafen und Logistik AG (Hhla), partecipata dall’ente amministrativo federale della città tedesca. Il colosso asiatico metterebbe così le mani su uno dei siti tedeschi più strategici, grazie al compromesso osservato dal cancelliere Olaf Scholz (che di Amburgo è stato sindaco), che avrebbe ceduto sulle quote del 35% inizialmente programmate.

Il cancelliere tira dritto, nonostante l'opposizione di ben sei ministri tedeschi, il Bundestag e le agenzie di intelligence del Paese. E lo fa rassicurando su quel 24,9%, che non permetterebbe al colosso cinese di influenzare la gestione del terminal né avere diritto di veto sulle decisioni strategiche in materia di affari o di personale. C'è un ulteriore vincolo stringente: a Cosco non verrebbe concesso il diritto di nominare membri del management.

Il colosso cinese non ha puntato lo sguardo solo sul porto di Amburgo. Il gruppo Cosco è la quarta compagnia di spedizioni di container al mondo e possiede il 40% delle azioni di Vado Gateway, il terminal container deep-sea del porto di Savona Vado Ligure, gestito congiuntamente da APM Terminals Vado Ligure Spa, società italiana composta da APM Terminals (50,1%), Cosco e un'altra società cinese, la Qingdao Port International (9,9%). Ma la lista della presenza di Cosco nei porti di tutto il mondo è lunga. 

 Mentre la Hamburger Hafen und Logistik AG è diventata recentemente il socio di maggioranza, con il 50,01 per cento, del terminal multipurpose "Piattaforma logistica Trieste" (Plt) nel porto giuliano.  

La città senza tasse che l'Italia ha appaltato all'estero 

Per sedare le polemiche nate nel Bundestag, la società tedesca di logistica e trasporti ha precisato (sul suo sito web) quale sia la natura della cooperazione con Cosco che - si legge - "non crea dipendenze unilaterali". Al contrario: "rafforza le catene di approvvigionamento, assicura posti di lavoro e consente la creazione di valore in Germania". Quindi, precisa Hhla, il colosso cinese non riceve alcun diritto esclusivo del Container Terminal Tollerort, gestito dall'azienda tedesca. 

La questione è complessa e gli esperti rassicurano: la presenza di Cosco nel porto giuliano - anche se in minima parte - non dovrebbe rappresentare questioni di sicurezza. Ma come si è arrivati fin qui?

Per comprendere come la Cosco sia entrata nel porto di Trieste (attraverso quindi un ingresso secondario), bisogna riavvolgere il nastro al 2019, quando l'Italia ha siglato il Memorandum of Understanding con la Repubblica popolare cinese. Il governo gialloverde, allora alla guida di Palazzo Chigi, ha aperto la porta italiana alla Nuova via della seta cinese (Belt and Road Initiative - Bri), il megaprogetto infrastrutturale voluto dal presidente Xi Jinping. L'iniziativa, lanciata dal leader cinese durante le visite ufficiali in Kazakistan e Indonesia nel 2013, ha un doppio filo: la cintura economica terrestre della Silk Road Economic Belt e quella marittima della Maritime Silk Road. Inizialmente, le due rotte erano state indicate come One Belt, One Road, e successivamente sono finite sotto l'ombrello della sigla Belt and Raod Initiative. 

Una rarità tutta italiana

L'Italia è diventata così il primo e unico paese del G7 a siglare questa intesa con il gigante asiatico. La firma del Memorandum è stata accompagnata da una serie di accordi commerciali - compreso quello tra il porto di Genova e Trieste e l'azienda statale China Communications Construction Company (Cccc) - che non hanno mancato di suscitare preoccupazione internazionale. Il caso del porto greco del Pireo, privatizzato nel 2016 dai cinesi di Cosco che detiene il controllo del 67% dell'infrastruttura, ha messo in allarme Unione Europea e Stati Uniti, preoccupati dall'ingresso sempre più rilevante di aziende statali cinesi nei porti stranieri, con particolare attenzione per le infrastrutture sottosviluppate o che riversano in difficoltà economica.

Perché la Cina punta gli occhi sulle infrastrutture strategiche dell'Europa? Le motivazioni sono semplici e si riconoscono principalmente nel ruolo cruciale che i porti giocano nella Belt and Rod Initiative, il progetto che mira semplificare la connettività lungo la rotta commerciale e accedere a più vasti mercati esteri. Ma soprattutto risponde agli imperativi geopolitici ed economici. 

In primo luogo, Pechino riserva particolare attenzione alla via marittima della Bri perché rappresenta un tragitto sicuro e protetto dalle turbolenze politiche e militari che si potrebbero presentare lungo la rotta terrestre dell'Asia centrale (tratta da cui - inevitabilmente - passa la Nuova Via della Seta terrestre). Dall'Europa settentrionale a quella meridionale, le aziende cinesi stanno aumentando gradualmente la loro presenza nelle infrastrutture marittime.

E per sostenere la rotta marittima, Pechino ha pensato a tutto. Al lancio della Maritime Silk Road, è seguita l'apertura nel 2016 della Banca Asiatica d'Investimento per le Infrastrutture (AIIB), l'istituto internazionale che coinvolge 106 membri di diversi paesi (oltre alla Cina, il principale socio, ci sono anche India, Russia e Italia) e che finora ha investito 39,44 miliardi di dollari in 205 progetti infrastrutturali.

Con il grande contributo economico dell'istituto bancario pensato per sostenere il progetto infrastrutturale, il colosso cinese ha avuto modo di espandersi in maniera capillare in paesi dell'Africa, Asia e America Latina. La Cosco possiede partecipazioni di minoranza nei porti di Anversa e Zeebrugge sulla costa del Mare del Nord, nei porti di Las Palmas nelle Isole Canarie, a Rotterdam nei Paesi Bassi, in Spagna a Bilbao e Valencia e Haifa, in Israele. A queste, ovviamente, bisogna aggiungere il porto del Pireo e quello di Amburgo. 

Tuttavia, negli ultimi anni, i porti dell'Europa meridionale hanno ricevuto un'attenzione crescente da parte della Cina. La loro attrattività può essere ricondotta a un particolare fattore, spiega Francesca Ghiretti in un report dell'IAI (Istituto Affari Internazionali): l'espansione del Canale di Suez e l'aumento del volume degli scambi da e verso il Mediterraneo, che è coinciso con l'incremento degli investimenti cinesi nelle infrastrutture marittime nell'Europa meridionale. L'ampliamento del Canale di Suez è stato completato nel 2016, lo stesso anno in cui la Cosco ha acquisito le quote del porto greco del Pireo. 

Ma le azioni dei colossi cinesi non sono sempre trasparenti. Una delle critiche mosse alla Bri è la mancanza di chiarezza sui reali scopi e obiettivi del megaprogetto, che coinvolge 147 paesi, un insieme di due terzi della popolazione mondiale che rappresenta il 40 per cento del Pil globale.

E, soprattutto, sono state sollevate perplessità su quei coni d’ombra dei prestiti cinesi concessi alle economie fragili per costruire strade, ponti, stadi e ospedali all’insegna della Bri, con elargizioni economiche massicce a condizioni opache. È la cosiddetta "trappola del debito", che rappresenta un rischio reale per i paesi debitori. Un sistema che consente alle diverse imprese statali cinesi (Soe) - che investono nei progetti della Bri - di entrare negli asset dei paesi con un alto debito nei confronti del gigante asiatico. Tuttavia, diversi studi hanno messo in luce un tentativo di Pechino di rinegoziare i debiti anziché farsi consegnare le infrastrutture pubbliche.

L'opacità e la vaghezza dei termini contrattuali ha spinto molti, nel 2019, ad alzare qualche sopracciglio in occasione della firma del Memorandum of Understing firmato tra Roma e Pechino, scrive Ghiretti nel suo report. Ma, come precisa la ricercatrice, "il MoU dei porti di Genova e Trieste con Cccc erano ampie dichiarazioni di intenti. Come in altri casi, avevano il potenziale per essere un primo passo verso la promozione della presenza del Cccc in Italia e in Europa. Gli accordi - si legge - limitano la portata degli affari del colosso cinese che, come altri soggetti, deve ottenere l'aggiudicazione di appalti tramite gara pubblica".

In questo modo, il quadro giuridico nazionale ed europeo limita le capacità delle società straniere di acquisire attività in settori chiave delle economie nazionali degli Stati. In Italia, inoltre, il governo può esercitare il Golden Power, per controllare ed eventualmente bloccare gli investimenti esteri in entrata. 

Golden power, che cos'è e a cosa serve lo scudo per il Made in Italy

Il nuovo look della Bri

L'onda dell'entusiasmo per la generosità cinese si è però arginata a causa delle difficoltà economiche e geopolitiche che la Cina ha incontrato dal lancio della Bri. Già prima della pandemia di Covid-19, il gigante asiatico ha rivisto la sua politica di investimenti massicci, che hanno solleticato soprattutto l'interesse e le mire degli autocrati. Dal 2016 al 2019, la Cina ha chiuso il rubinetto delle sue elargizioni di denaro: da un totale di 75 miliardi di dollari si è passati in tre anni a 3,9 miliardi di dollari di prestito, circa il 94% in meno secondo i dati del Global Development Policy Center della Boston University.

Finanziamenti della Cina all'estero (Fonte: Boston University Global Development Policy Center, 2023)

Il calo dei prestiti, quindi, non può essere attribuito esclusivamente al caos economico provocato dalla pandemia, ma a una serie di pressioni geopolitiche, problemi economici interni alla Cina e all'introduzione di norme che Pechino ha voluto per ridimensionare e controllare gli investimenti all'estero. 

La Repubblica popolare negli ultimi anni ha quindi proposto un nuovo look al megaprogetto intercontinentale, adottando un modello più sostenibile e meno costoso: dalle infrastrutture Pechino è passata a promuovere accordi in settori come il commercio, le telecomunicazioni, l'energia verde e il mondo accademico. 

La Cina sembra abbracciare forme di collaborazione economica meno invasive, per non ledere i rapporti economici con i paesi aderenti alla Nuova Via della Seta, Italia inclusa. Perché Roma, con il nuovo esecutivo a guida Giorgia Meloni, ha messo in stand-by la decisione di uscire dal megaprogetto voluto da Xi Jinping. Il Memorandum of Understanding siglato nel 2019 scadrà nella primavera del 2024. Ma l'adesione al testo non è vincolante e, a oggi, non può vantare di aver prodotto grandi risultati per l'Italia. 

La presidente del Consiglio Meloni - che secondo un’indiscrezione non confermata pubblicata da Intelligence online potrebbe recarsi in primavera in Cina durante il Terzo Forum sulla Via della Seta -, ha rivisto la sua posizione nei confronti del gigante asiatico. Da una prima virata anti-cinese, la nazionalista che siede a Palazzo Chigi sembra aver cambiato idea: l'imperativo è ora mantenere buoni i rapporti con la Cina.

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