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Venerdì, 19 Aprile 2024
Le scelte dei governi / Cina

Aborto in Asia, un viaggio tra diritti e scelte politiche

Nel continente orientale, il diritto all’aborto si appoggia alle diverse contraddizioni in seno alla religione, cultura, diritto e politica di ogni singolo paese della regione

La sentenza della Corte Suprema statunitense che ha ribaltato dopo circa 50 anni il diritto costituzionale all'aborto ha scatenato una frenetica polemica sull’autodeterminazione femminile e sulle restrizioni adottate dai governi a livello globale.

Il rovesciamento della sentenza Roe vs Wade del 1973 ha generato un acceso dibattito anche in Cina, dove la gran parte degli utenti dei social network cinesi ha espresso empatia nei confronti delle donne americane e ha evidenziato l’erosione del modello democratico statunitense di contro al socialismo cinese. La sentenza storica dei saggi statunitensi ha ravvivato anche la riflessione sulla condizione delle donne in Cina e sulle tematiche legate alla pianificazione familiare.

L’aborto in Cina segnato dalla politica del figlio unico

Il diritto all’aborto in Cina è strettamente connesso alle norme demografiche e sociali, sulla scia della politica cinese del figlio unico introdotta nel 1979 dal governo di Pechino per rispondere alla preoccupante pressione demografica. Il provvedimento cinese, che ha vietato alle donne di avere più di un figlio per circa 40 anni, è stato abolito nel 2016: la speranza del Partito comunista cinese era registrare uno slancio della fertilità.

L’aspettativa però è stata disattesa e lo dimostrano i dati. Nonostante il governo lo scorso anno abbia concesso alle famiglie di avere fino a tre figli, il numero dei nuovi nati in Cina è diminuito del 45 per cento negli ultimi due mesi del 2020 rispetto all’anno in cui è stata abolita la politica del figlio unico. Anche il tasso di natalità ha registrato minimi storici: appena 8,52 nascite ogni 1.000 persone. Le autorità governativa stanno pensando a diverse misure per fare fronte al calo della fertilità che dal 12 per cento del 2007 è passato al 18 per cento del 2020.

La Repubblica popolare cinese sta introducendo per questo delle limitazioni all’interruzione volontaria di gravidanza e rispondere così a una conseguenza di una politica che ha segnato almeno due generazioni. In Cina, la pratica dell’aborto è legale e generalmente accessibile a tutti, ma i recenti provvedimenti impongono restrizioni sull’aborto.

Lo scorso settembre, il Consiglio di stato cinese ha emanato nuove linee guida per limitare il numero di aborti eseguiti non per scopi medici. È ancora tutto sul tavolo, ma si teorizza anche una campagna per disincentivare le gravidanze indesiderate e gli aborti tra gli adolescenti e minorenni. Ma questi interventi del governo, attuati con il pretesto di "migliorare la salute riproduttiva delle donne", sono in realtà una risposta alla crescente crisi della fertilità in Cina.

Per il governo di Pechino è un percorso tutto in salita. In passato, le autorità alle prese con l’aumento demografico hanno incoraggiato le donne ad abortire, con misure che si sono avvicinate alla coercizione. È difficile ora segnare un’inversione di rotta. Il tasso di aborti in Cina è notevolmente superiore rispetto agli standard internazionali: nel 2020 ci sono stati 43 aborti su 100 gestazioni.

Il contesto in Asia

Un dato certamente superiore se paragonato a quello del Giappone, che nel 2020 ha registrato 15 aborti per 100 gravidanze, Taiwan 13 su 100, e gli Stati Uniti 19. In Asia il diritto all’aborto si appoggia alle diverse contraddizioni in seno alla religione, cultura, diritto e politica di ogni singolo paese della regione. Il ricorso all’aborto selettivo (per limitare la nascita femminile, per esempio), seppur limitato per legge, è diffuso e praticato a Taiwan, in Corea del Sud, in India e in Cina.

Ogni anno, in Asia abortiscono circa 36 milioni di donne, secondo i dati diffusi nel 2017 dal Guttmacher Institute, un'organizzazione di ricerca sulla salute sessuale e riproduttiva e sui diritti con sede negli Stati Uniti. Gli stessi dati mostrano che il 6 per cento delle morti materne nella regione nel 2014 è stato causato da aborti non sicuri: ogni anno nei paesi in cui l'aborto è legalizzato, come l'India e il Vietnam, c’è un frequente ricorso all’aborto selettivo e un incremento della mortalità delle donne che scelgono la via più insicura per porre fine alla gravidanza.

Molti paesi hanno recentemente liberalizzato le leggi sull'aborto - dalla Thailandia alla Corea del Sud – mentre altri si confermano apripista per il riconoscimento del diritto all’aborto. Il Giappone, per esempio, è stato il primo paese in Asia a legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza. Anche il paese del Sol Levante ha introdotto la procedura nel 1948 per frenare la crescita demografica: la popolazione del paese era infatti in forte espansione dopo il ritorno delle truppe nipponiche dalla seconda guerra mondiale e nel frattempo incombeva lo spettro della crisi alimentare ed economica del dopoguerra. Attualmente nel paese, le donne possono abortire per malformazioni del feto e pericolo per la salute della donna previa autorizzazione del coniuge o partner.

L'India ha legalizzato l'aborto nel 1971 in caso di emergenze mediche e aggressioni sessuali. Il paese ha aggiornato lo scorso anno la legge sull'interruzione della gravidanza per consentire l'aborto fino alla 24a settimana di gravidanza - il limite in precedenza era di 20 settimane - in caso di stupro, incesto e per i minori e le madri diversamente abili.

Nel sud-est asiatico la situazione appare più complessa ed eterogenea. L'aborto è illegale in Indonesia tranne in caso di stupro o quando la vita della madre è in pericolo. Le donne ritenute colpevoli di aver subito aborti illegali possono essere condannate fino a 10 anni di carcere. Il credo religioso è un limite per l’impianto legislativo di alcuni paesi dell’area. Le restrizioni sull'aborto sono particolarmente forti nei paesi con credenze religiose radicate, come il Bangladesh musulmano, le Filippine cattoliche e la Thailandia buddista dove è consentito possibile ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza con determinati limiti.

La democratica Corea del Sud si è mossa con lentezza: l'aborto è stato illegale fino allo scorso anno a causa delle pressioni dei cristiani conservatori, che costituiscono il 30 per cento della popolazione. Mancano ancora i limiti temporali che precisano quando interrompere la gravidanza. Il governo è impantanato in una discussione che rischia di mettere a repentaglio la vita e i diritti di tante donne sudcoreane.

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