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Giovedì, 25 Aprile 2024
violenta repressione / Cina

Perché gli operai protestano nella fabbrica iPhone in Cina

Il resoconto delle rivolte ha bucato per poco tempo la rigida censura cinese, prima che ogni video e commento relativo alla giornata di proteste finisse nel mirino dei censori. Le ricerche della parola "Foxconn" sui social media cinesi non produce alcun risultato

Al grido "difendere i nostri diritti", centinaia di lavoratori dello stabilimento di Foxconn a Zhengzhou, in Cina, hanno inscenato accese proteste contro la politica Zero Covid ieri 22 novembre. Il principale stabilimento cinese dove viene prodotta la metà degli iPhone del mondo è stato il teatro di violenti scontri dei dipendenti contro il personale sanitario di sicurezza, incaricato di riportare l'ordine.

Diversi video circolati sul social network cinese Kuaishou mostrano la rabbia di duecento lavoratori, che hanno tentato di rimuovere barriere collocate attorno allo stabilimento per contenere i contagi da Covid-19, protestando contro decine di funzionari di polizia in tute di contenimento biologico. 

Perché sono scoppiate le rivolte?

Perché una rimostranza così violenta? Alla fine di ottobre Foxconn aveva già fatto parlare di sé. Il più grande stabilimento operato dal colosso dell'elettronica taiwanese in Cina, dove sono impiegati circa 300mila lavoratori, è stato isolato il mese scorso quando è scoppiato un focolaio di Covid-19. La paura era montata tra gli operai, che vivono nei dormitori e mangiano all'interno del campus della Foxconn. Per il timore di rimanere bloccati all'interno della fabbrica, in base alla draconiana politica Zero Covid imposta dal governo centrale, numerosi lavoratori sono fuggiti - anche a piedi - per sottrarsi alle misure di contenimento. 

Qualche dipendente ha però preferito rimanere nello stabilimento, dopo che Foxconn ha offerto un bonus una tantum di 500 yuan (69 dollari) e un aumento di stipendio di quattro dollari l'ora. L'azienda ha anche assunto 100nuovi lavoratori in sostituzione di chi è fuggito, per scongiurare il blocco delle attività produttive di uno dei prodotti tra i più venduti durante il Black Friday e le festività natalizie. Le promesse del colosso tecnologico non sono però state mantenute. La protesta sembra sia scoppiata per il mancato pagamento dei bonus promessi e la diffusione dell’infezione nello stabilimento.

L'ennesima levata di scudi è arrivata dopo le denunce emerse sui social network di lavoratori che lamentavano precarie condizioni igieniche nello stabilimento e scarsità di cibo e altri generi di prima necessità. Il colosso tecnologico non ci sta però a farsi travolgere dalle polemiche e respinge le accuse al mittente, affermando di aver pagato i dovuti contribuiti ai dipendenti e di aver fatto rispettare le norme antivirus nella fabbrica. Tuttavia l'azienda sembra voler correre ai ripari e ha promesso un compenso di circa 1.400 dollari a ogni nuovo assunto per lasciare l'azienda. Un debole tentativo di sedare le proteste.

Il resoconto delle rivolte di ieri ha bucato per poco tempo la rigida censura cinese, prima che ogni video e commento relativo alla giornata di proteste finisse nel mirino dei censori. Le ricerche della parola "Foxconn" sui social media cinesi non produce alcun risultato. Segno di una immediata e aggressiva censura.

Cosa ci dicono le proteste?

I rari casi di violenza nello stabilimento nella città centrale di Zhengzhou testimoniano l'accumulo di tensioni dall'inizio della strategia Zero Covid, che ha fatto esplodere proteste che nelle prime fasi della pandemia erano state inedite. Da maggio il numero delle rimostranze sono aumentate: le prime si sono segnalate a Shanghai dopo un rigido lockdown; la settimana scorsa, invece, ci sono stati scontri violenti anche a Guangzhou. Il malcontento si registra anche a Pechino, dove milioni di persone residenti in diversi distretti sono tornate in lockdown dopo le prime morti per cause legate al Covid registrate in Cina in oltre sei mesi.

La rabbia non sembra placarsi, nonostante i timidi tentativi del governo di Pechino di rivedere la strategia Zero Covid. Una prima revisione della strategia è arrivata con la riunione del Politburo del Partito comunista cinese lo scorso 11 novembre, quando i sette uomini più potenti del paese hanno deciso di allentare la stretta della draconiana misura antivirus per bilanciare il controllo epidemico e la stabilità delle catene di approvvigionamento.

Il governo centrale ha quindi indicato alle autorità locali di adottare restrizioni più mirate e di astenersi dall’applicazione indiscriminata delle politiche antivirus, come lockdown generalizzati, isolamenti domiciliari per i contatti di un positivo, test di massa e quarantena per chi entra in Cina.

Quanto durerà la strategia Zero Covid

La Cina è l'unico grande paese al mondo che sta ancora tentando di sradicare le infezioni da Covid a tre anni dall'inizio della pandemia, con il Partito Comunista al governo che afferma che è l'unico modo per proteggere le vite cinesi. Ma anche se Pechino promette di mantenere un approccio di tolleranza zero, i funzionari hanno iniziato a riconoscere le ripercussioni economiche e sociali che lo Zero Covid sta avendo sui territori da loro governati. 

Un passo verso un rilassamento totale della strategia Zero Covid sembra ancora lontano. Pechino teme che un abbandono della politica antivirus possa aumentare il numero dei decessi, che ufficialmente non hanno superato la soglia la soglia dei 5200 morti. Ma c'è anche il divario immunitario tra i cittadini che spinge i funzionari cinesi a non allentare la presa dalla politica antivirus, per evitare un collasso del sistema sanitario nazionale. Sebbene quasi il 90% dei cittadini cinesi sia completamente immunizzato, gli ultrasessantenni rappresentano lo zoccolo duro di chi non si vaccina: solo il 40% degli over 80 ha fatto le tre dosi richieste contro la variante Omicron, la più diffusa nel paese. Per questo non sorprendono i richiami di Oms e Fmi, che hanno esortato la Cina a rivedere la sua strategia Zero Covid e ad aumentare i tassi di vaccinazione.

Dopo l'ennesima rimostranza di cittadini stufi di tre anni di restrizioni, c'è da chiedersi se Pechino ascolterà le indicazioni di esperti e analisti che suggeriscono alla Cina di convivere con il virus, anziché abbattere anche il più piccolo focolaio. Ascoltare però le richieste esterne significherebbe mettere in discussione la strategia Zero Covid. Poiché la politica di Zero Covid è indissolubilmente legata al presidente cinese, il suo successo è il successo di Xi. Il suo fallimento, invece, non è concepibile.

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