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Giovedì, 28 Marzo 2024
MEDIO ORIENTE

Gaza, la tregua che deve diventare pace

La storia, le questioni aperte, l'isolamento di Hamas e le paure di Egitto e Israele: i colloqui che si aprono al Cairo devono portare a compromessi e soluzioni accettabili per tutti. Con l'obiettivo di uno stato palestinese

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La tregua regge. I colloqui tra Israele e palestinesi, con anche le delegazioni di Hamas presenti al Cairo, sono sul punto di partire. I 29 giorni di conflitto sembrano archiviati, almeno nelle 72 ore di speranza di questo fragile stop alle armi. Di certo non sono archiviati i morti, i traumi, la sensazione che "dell'altro" non ci si possa mai fidare. Eppure è il momento di guardare in maniera diversa al conflitto israelo-palestinese, che trova nella Striscia di Gaza sicuramente il meno importante tra i due grandi "problemi" (l'altro è ovviamente l'amministrazione della Cisgiordania e del futuro degli insediamenti ebraici) ma di certo il più simbolico, con la consapevolezza che il "martirio" di Gaza voluto da Hamas non porterà ad altro che a nuove vittime, e che le operazioni militari israeliane non potranno specularmente vincere strategicamente la guerra che oppone Gerusalemme agli islamisti che invocano la distruzione dello stato ebraico, come tatticamente ogni tunnel e ogni postazione per il lancio di razzi distrutti saranno solo una vittoria "di Pirro".

Al netto delle irrazionali emotività e della propaganda che l'hanno fatta da padrone nei 29 giorni di conflitto, ma anche mettendo da parte i dettagli più tecnici che saranno comunque oggetto delle discussioni al Cairo, la realtà sul terreno è così complicata che solo una soluzione "semplice" potrà cambiarla.

LA STRISCIA DI GAZA

Occupata dall'Egitto al termine della prima guerra arabo-israeliana, per 20 anni l'area è stata una terra di nessuno: di nullo interesse strategico per Israele, motivo di fastidio e oggetto di repressione per un Egitto che non sapeva "che cosa farci". Abitata in prevalenza da profughi arabi che andavano formando un'identità nazionale palestinese, rassegnati e in attesa di una qualche soluzione ai loro problemi quotidiani, nel 1967 venne occupata in un 24 ore dall'esercito israeliano durante la guerra dei Sei Giorni. Quello che successe dopo è emblematico: mentre Israele "ridette" indietro agli egiziani ogni territorio conquistato, con il trattato di pace del '79 l'Egitto si rifiutò di riprenderne il controllo, abbandonando l'enclave a Israele e delegandogli ogni controllo sull'area.

Nel 1994 divenne ufficialmente parte dell'Autorità Nazionale Palestinese, mentre la politica degli insediamenti, iniziata nel '73, si concluse definitivamente nel 2005, con lo smantellamento unilaterale voluto da Sharon. La "controversa liberazione" di Gaza, invece di indurre Hamas, che era divenuta la principale forza politico-militare palestinese dell'area, ad amministrare il territorio e concordare con Israele misure per alleviare le inconfutabili sofferenze della popolazione civile, convinse gli islamisti che la loro fosse una "vittoria" ottenuta grazie al terrorismo e alla lotta armata, e, dando seguito a una visione che ritiene illegittilma la stessa esistenza di uno stato ebraico, si lanciò in nuove operazioni, condotte principalmente dal lancio di razzi, per ottenere la "vittoria definitiva sull'entità sionista".

LE QUESTIONI APERTE

Le letture più semplicistiche vedono in quella che si è consumata a Gaza una sfida tra Israele e Hamas. Nulla più lontano dalla realtà. La realtà è che oggi Hamas non è mai stata così sola e che, a parte per le più ideologizzate solidarietà occidentali e quelle "automatiche" di buona parte delle piazze mondo arabo-islamico, è un "problema" per quasi tutti gli attori in campo.

Vista come organizzazione para-terroristica dall'Occidente, nemica giurata della giunta militare egiziana che la considera "quinta colonna" della Fratellanza Musulmana, lontana, per via del conflitto siriano, dagli storici alleati iraniani e libanesi di Hezbollah, ha dalla sua parte i soli Qatar e Turchia. Il suo "margine operativo" è quasi vicino allo zero, eppure l'ideologia islamista della formazione non riesce a scendere a patti con l'oggettività della situazione.

Di fatto la Striscia di Gaza è un'enclave sovrappopolata chiusa da due lati: da una parte Israele che deve difendersi dalle infiltrazioni e dai razzi, andando purtroppo inevitabilmente a colpire anche tanti civili senza colpe, dall'altra l'Egitto che chiude il valico di Rafah e distrugge i tunnel per evitare il transito di armi che va ad alimentare il terrorismo nel Sinai. La smilitarizzazione dell'area non è quindi una "consegna delle armi" a Israele, ma il punto di partenza inevitabile per ogni possibile sviluppo positivo che non renda impossibile, per Il Cairo e Gerusalemme,  accettare un'allentamento della "morsa".

Un accordo, magari con una presenza internazionale sul modello libanese, che rassicuri governi e opinioni pubbliche locali e supervisioni l'effettivo appeasement, è fondamentale. Contemporaneamente il governo israeliano dovrebbe seguire la linea "Kerry", dominus della politica estera americana, che oggi ha chiesto con forza di approfittare del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e dei negoziati in Egitto per discutere della soluzione dei due Stati, unica che potrebbe mettere fine definitivamente al conflitto tra le parti.

Smilitarizzazione, sicurezza per Israele ed Egitto, futuro per lo stato palestinese. Tutti dovranno scendere a compromessi. Non sarà facile per un'Israele che, dalla Seconda Intifada, non crede più a nessuna delle promesse palestinesi. Non sarà facile neanche per la società civile araba, che troppo spesso ha visto come alle parole di Gerusalemme siano seguiti fatti diversi.

Alcuni analisti hanno visto questi 29 giorni di guerra come "un'utile" lotta tra destra israeliana e Hamas per rafforzare le proprie posizioni "interne". Forse non sarà vero, ma è arrivato il momento di fugare ogni possibile dubbio. Il momento della pace deve essere ora.

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