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Giovedì, 25 Aprile 2024
Mondo Ucraina

L'intervista alla madre del militare di Azov: "Non sappiamo più niente dei nostri ragazzi"

L'intervista a Alla Samoilenko, madre di Ilya, che tenne una drammatica conferenza stampa dall'interno dell'acciaieria Azovstal. La richiesta: pressioni alla Russia perché rispetti la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra

Alla Samoilenko non ha notizie di suo figlio Ilya da mesi. Da quando è stata ordinata l'evacuazione (o resa, a seconda dei punti di vista) di Azovstal, la grande acciaieria di Mariupol assediata a lungo dai russi, nessuno conosce il destino di Ilya Samoilenko e dei suoi commilitoni del reggimento Azov. Sono certamente in prigione, alcuni in Donbas, altri in Russia. Qualcuno è certamente morto durante l'attacco missilistico al carcere di Olenivka. "Non erano in tanti, in Azovstal", dice Alla a Today, mesi dopo la fine dei combattimenti nell'acciaieria: "Affrontavano una forza militare decine di volte più grande e non avevano supporto. Ogni tanto arrivavano elicotteri per portare qualche munizione e alimento, ma poi si sono fermati anche loro. Mio figlio e gli altri non avevano scelta: si preparavano a morire per l'Ucraina".

Ma chi è Ilya Samoilenko? Il mondo lo conosce perché, durante i giorni più caldi in Azovstal, tenne una drammatica conferenza stampa dall'interno dello stabilimento, parlando con giornalisti di vari paesi. Le sue parole fecero rumore, anche in Ucraina. In quel momento, i soldati del reggimento Azov si sentivano abbandonati. Ma Ilya è un ragazzo come tanti altri. Studiava storia e frequentava un corso di medicina militare. Nel 2014, quando è arrivata la guerra in Ucraina, si è arruolato, scegliendo Azov perché, spiega la madre, "era una struttura più avanzata rispetto ad altre nell'esercito, non di stampo sovietico. Insegnavano la guerra moderna ed infatti, nel 2022, hanno avuto minori perdite rispetto ad altri reparti". Nel sottolineare che Azov è "moderno" e "non sovietico" c'è l'Ucraina di oggi, quella che non tutti arrivano a comprendere. Non si tratta solo di scuola militare. Il popolo ucraino non vuole più sentirsi sovietico nell'organizzazione, ma anche nel modo di pensare e di essere.

Prigionieri invisibili

"Ilya voleva lavorare anche fuori dall'esercito", racconta Alla: "E ha un talento artistico. Spesso mi accompagnava nella mia carriera nel cinema". Alla Samoilenko lavora nell'industria cinematografica ucraina: a settembre è stata in Italia, al festival di Venezia. Continua a lavorare, ma il suo pensiero va al figlio. "Non ho notizie di lui, nessuno ha notizie di loro, da quando sono stati catturati". L'evacuazione di Azovstal è stata un ordine. Per salvarli dalla morte, si diceva in quei giorni. Perché ormai, per Mariupol, s'erano perse le speranze. Ma, da quel momento, di chi è stato evacuato (o almeno della maggior parte) si sono perse le tracce. Parliamo di almeno 9mila persone tra militari, civili e medici. Circa 2.400 di loro si trovano a Olenivka, in Donbas. Si tratta della prigione colpita da missili a fine luglio. E non si sa né quanti siano morti in quell'attacco (qualcuno ipotizza circa 60), né chi. Altri 10mila, dalla città di Mariupol, si trovano nei campi di filtrazione in Donbas e in Russia. Altri ancora, non si sa quanti, sono dispersi in Russia. Nessuno sa dove cercarli.

"All'inizio i russi hanno fatto una sorta di 'circo' per mostrare che stavano trattando bene i prigionieri, ma è stata l'unica occasione in cui la Croce Rossa ha potuto vederli", dice Alla. Eppure c'era l'impegno di agire nell'ambito della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Nonostante questo, nelle cosiddette 'repubbliche separatiste' era stata in fretta introdotta la pena di morte, e non pochi avevano sospettato che fosse 'dedicata' proprio ai futuri prigionieri del reggimento Azov, nemici giurati della Russia, considerati tutti nazisti e da eliminare. E a fine luglio l'ambasciata russa a Londra ha twittato che i militari di Azov "devono essere impiccati". "Quello che sappiamo con certezza", spiega Alla, "è che danno loro pochissima acqua, poco cibo, quasi nessuna cura medica. Sappiamo che portano una sessantina di loro, ogni giorno, a lavorare a Mariupol per esumare i cadaveri rimasti".

Il richiamo della vita civile, fatta di studio e lavoro, aveva portato Ilya a staccarsi dal reggimento sette mesi prima della guerra su larga scala. Il 20 febbraio è tornato a Mariupol per tenere lezioni di medicina tattica agli uomini e alle donne di Azov. Il 24 è partita l'invasione da parte della Russia e lui è rimasto lì. A Mariupol. Con il reggimento Azov. E poi dentro l'inferno di Azovstal, unico luogo in cui ad un certo punto è stato possibile rintanarsi per resistere. Sia per i militari sia per i civili. "C'è stato un tradimento", afferma Alla senza mezzi termini, "tra le persone che prendevano decisioni. Il sud è stato occupato subito, i ragazzi lasciati senza istruzioni. Non erano pronti. La velocità con cui Mariupol è stata circondata porta a domandarsi qualcosa". Il sud: non solo Mariupol, ma anche l'oblast di Kherson, oggi teatro di controffensiva ucraina, dove i residenti, tra fine febbraio e inizio marzo, si sono ritrovati i mezzi russi quasi da un giorno all'altro in strada, tanto da tentare di scendere a fermarli a mani nude. Un capitolo della guerra su larga scala che, quando sarà finita, verrà sicuramente discusso in Ucraina.

Appello all'Onu

"I russi avevano preso l'impegno di agire nei limiti della Convenzione di Ginevra", racconta Alla: "Ma, a parte l'unica volta in cui la Croce Rossa è riuscita a vedere come i prigionieri venivano trattati, noi ora non sappiamo più nulla. I servizi segreti ucraini affermano che si sta facendo il possibile e molti di noi si fidano. Ovviamente non ci danno informazioni precise. Ci viene consigliato di non fare niente, di lasciare lavorare in silenzio, ma io penso che l'esperienza ci suggerisce che, più si diffondono le voci e le richieste, più aumenta la possibilità di farci restituire i nostri cari". I parenti di Azov sono in contatto tra loro e si coordinano. "Il nostro impegno", dice Alla, "è molto conosciuto in Ucraina, dove nessuno si dimentica di Azov, ma a livello internazionale sarebbe possibile esercitare pressioni sulla Russia per far rilasciare i ragazzi. L'Onu avrebbe gli strumenti e il diritto di esercitare pressioni, ma, per qualche motivo, non agisce. I nostri prigionieri sono ignorati nei loro diritti". Alla e gli altri parenti cercano così di rivolgersi ai governi occidentali, nonché al Parlamento europeo, anche se, in quella sede, mettere tutti d'accordo è complicato. 

Mentre parliamo con Alla Samoilenko, è in corso la controffensiva ucraina, avviata il 29 agosto verso l'oblast di Kherson e poi concentratasi soprattutto a Kharkiv, la cui intera regione è stata nel frattempo liberata. "Siamo pieni di speranze", dice Alla, "per quanto succede a Kharkiv. Sperando che i nostri ragazzi sopravvivano, chiediamo a tutti gli europei di aiutarci a spingere la Russia a rispettare la Convenzione di Ginevra".

(Ha collaborato Olena Kozlovska)

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