Kherson, Ucraina. Due parole che fino a pochi giorni fa sembrava difficile rimettere insieme. Invece è successo. La città, unica capitale regionale conquistata dai soldati di Mosca, dopo otto mesi di occupazione e dopo un referendum illegale che l'ha annessa al territorio russo, è tornata a far sventolare la bandiera nazionale ucraina.
I russi prima di ritirarsi hanno distrutto tutte le infrastrutture. Kherson in questi giorni è una città senza luce, senza acqua e senza telecomunicazioni ma, nonostante questo, è una città che è tornata libera, dove la gente può finalmente esprimersi senza il timore di essere arrestata, torturata e deportata e senza essere obbligata a prendere la cittadinanza russa.
In piazza della Vittoria un gruppo di soldati è schierato sull'attenti. Qualche centinaio di civili, molte donne e bambini, sono davanti a loro con bandiere e ghirlande di fiori. È un momento solenne. Tutti cantano l'inno nazionale quando la bandiera viene ufficialmente issata su un alto pennone. C'è anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.
Si avvicina alla folla, sorride, stringe mani. Poi si allontana velocemente su un suv nero, circondato dagli uomini della sicurezza. Nella piazza rimane ancora un gigantesco cartellone di propaganda russa, mezzo strappato. C'è scritto '22-27 settembre: vieni al referendum. Insieme con la Russia'.
"E adesso non c'è neanche un russo!", dice ridendo Andrej. "Io ovviamente non ho votato, li odio, li ho sempre odiati. Quando sono arrivati i russi, all'inizio, c'erano persone che si scontravano con loro, gli urlavano addosso, venivano qui con la bandiera nazionale, uomini e donne coraggiose. Io non ero tra loro, non avevo abbastanza fegato per farlo. I russi li evitavo. Avevo paura. C'era anche gente che stava con i russi e che ha votato per il referendum. Anziani soprattutto, nostalgici del comunismo e dell'Unione Sovietica. Ma le nuove generazioni non guardano alla Russia, guardano all'Occidente. Ed è normale che lo facciano".
Poco distante dalla piazza si trova il mercato principale. Molti negozi sono chiusi dall'inizio della guerra. Andrew prende un caffè da una signora seduta davanti a un baracchino di legno sul quale è appoggiato un thermos di acqua bollente. "I costi dei prodotti qui in città sono triplicati. Guarda - dice indicando la vetrina di un negozio di alimentari - li vedi? Un chilo di formaggio, quello più a buon mercato costa più di dieci euro".
In un Paese dove la pensione si aggira mediamente sui duecento euro al mese, sopravvivere, per chi non ha lavoro o una entrata sicura, diventa difficile. "Oggi qui non abbiamo acqua corrente, elettricità, riscaldamento, telefono, connessione internet. Ma non abbiamo neanche più i russi, e questa è la cosa più importante" dice Andrej. Molta gente corre verso la piazza. "È vero c'è il presidente Zelensky?" chiede uno di loro.
Una coppia si abbraccia. Lui è un soldato. Lei gli passa le mani fra i capelli, poi si parlano piano, vicini, e si baciano. Elena è ferma davanti all'entrata di un negozio. Guarda la gente passare con i colori dell'Ucraina e sorride. Ha un grembiule giallo e un cappellino; è la sua divisa da banconista. Dentro, salumi, pesce, alcol e formaggi. Poca roba, disposta nel banco frigo alimentato da un generatore e su solitari scaffali di legno.
Elena ha passato dieci anni in Italia, in Veneto, ma è dovuta rientrare a Kherson per assistere la madre, malata di cancro. "Come erano? Non ho mai parlato con loro in questi otto mesi. Entravano nel negozio, acquistavano, pagavano e andavano via. Tutto lì. Io però non ho mai smesso di pensare ai nostri soldati, a quando sarebbero arrivati a salvarci. Sapevo che non ci avrebbero mai abbandonato. È stata dura in questi otto mesi, ma ora sono felice".