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Martedì, 16 Aprile 2024
LIBANO

THIS IS NOT PARADISE - Le donne invisibili di Beirut

Questo è il diario di un gruppo di film-makers al lavoro per un documentario: "This is not paradise". E' il racconto delle tragiche condizioni in cui vivono le migranti domestiche provenienti soprattutto da Filippine, Nepal, Sri Lanka, Etiopia ed Eritrea. Lisa Tormena, Gaia Vianello, Marco Bacchi e Matteo Lolletti racconteranno, passo per passo, la nascita del loro film, le problematiche che troveranno sulla loro strada, gli incontri che faranno

BEIRUT - Lunedì scorso sono finalmente arrivati i permessi per filmare lungo le strade di Beirut, dopo una settimana di attesa e a più di un mese dalla richiesta. Per tutta la scorsa settimana, quindi, abbiamo potuto raccogliere solo immagini “rubate” nei ricchi resort in spiaggia, lungo le vie più alla moda di Beirut, nelle zone residenziali e in quelle periferiche, dove si respirano odori esotici e fumi di scarico. 

#1: La strana accoglienza di Beirut

Ci siamo quasi abituati al caos delle strade, ai chiassosi concerti dei clacson, allo smog, ai cantieri aperti ovunque, ai militari a ogni angolo di strada. E’ ancora difficile da digerire, invece, la normalità con cui Beirut accetta la vista delle numerose donne di servizio, soprattutto etiopi, nepalesi e filippine, che camminano lungo le strade con la loro pulita uniforme, rosa o azzurra, soprattutto, per andare a fare la spesa o portare fuori il cane della loro “madame”. Beirut è così: del problema della violazione dei diritti umani si parla molto, ma poi è come se queste donne fossero invisibili. Se hanno la fortuna di avere un giorno di riposo, le si incontra in abiti informali la domenica mattina davanti alle chiese, quando le comunità si ritrovano per la messa. Poi i gruppi si sciolgono e ciascuna donna riparte. Le violenze rimangono chiuse all’interno delle pareti di ogni casa di Beirut.

#2: Il difficile equilibrio tra le strade di Beirut

Dopo aver intervistato numerose ONG, associazioni informali, la regista etiope Rahel Zegeye, siamo ancora alla ricerca di famiglie libanesi disponibili ad accoglierci per riuscire a catturare momenti di vita quotidiana. Una percentuale altissima di famiglie ha la propria lavoratrice domestica, che vive in casa 24 ore su 24. Se lo possono permettere, ci dicono in molti, “perché costa pochissimo, anche 120 dollari al mese. E se poi non hai i soldi, puoi anche non pagarle. Tanto non c’è nessuno che può farti niente”. Non esistendo una legge del lavoro che protegga le migranti da abusi come il mancato pagamento del salario o violenze che arrivano anche allo stupro, costituiscono la fascia più vulnerabile della società. “Ci sono dei negozi - ci racconta un giovane con cui ci fermiamo a chiacchierare lungo Hamra, una delle vie più ricche della città - dove vai e scegli la domestica”. Con il dito mima la scena della scelta. “Poi se non ti va bene, hai tre mesi per riportarla indietro”. “Tipo come fosse un oggetto?”, lo stuzzichiamo. “Sì, come se andassi in a pet shop (un negozio di animali, ndr)e sorride. La sensazione è che non si rendano conto di quanto queste affermazioni possano suonare scioccanti a un orecchio occidentale. Ci dicono che non è giusto, che sanno dei casi di suicidio delle donne di servizio, che leggono degli abusi e delle discussioni su una nuova legge del lavoro. Ma poi lasciano che siano solo le associazioni per i migranti a lavorare sul problema e a fare lobbying.

#3: La storia di Rahel

Quello che le ONG possono fare è spingere affinché questo perverso sistema, la Kafala, venga abolito. Fino a quel momento, ancora molto lontano, gli strumenti in loro possesso per aiutare le migranti sono davvero pochissimi: la sensibilizzazione, il sostegno legale in caso di problemi con la giustizia, percorsi educativi e psicologici, corsi di lingua e di computer, attività ludiche per il tempo libero e poco altro. 

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