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Giovedì, 25 Aprile 2024

Nicolò Giraldi

Responsabile Trieste Prima

Gli stessi errori trent’anni dopo Sarajevo

SARAJEVO- “I Balcani sono come il Triangolo delle Bermuda: quando ci sei dentro ti perdi”. Trent’anni rappresentano l’età di una generazione e Sarajevo, la città simbolo di tutta la penisola, ha imparato a fare i conti molto tempo fa. Una guerra la fece a brandelli per millequattrocentoventicinque giorni e da quel 5 aprile 1992 gli snajper, i cecchini dell’esercito serbo, iniziarono a terrorizzare i suoi cittadini nel più lungo assedio che la Storia novecentesca abbia mai prodotto. Trent’anni fa erano in migliaia a manifestare lungo le sue strade, per dire di no a quella guerra che stava già frantumando la Jugoslavia. C’è chi dice centomila persone, giunti in riva alla Miljačka da ogni dove. I militari serbi iniziarono a sparare sulla folla e sul ponte che oggi porta il loro nome, la morte di Suada e Olga aprì le porte della guerra alla città. Dall’attentato a Francesco Ferdinando fino a quel giorno a Sarajevo la Storia ha sempre a che fare con i ponti. 

Trent'anni dopo

Questa mattina, a portare un fiore alle due giovani donne c’era qualche decina di persone. Mentre in Europa la parola genocidio riemerge dall’oblio più in salute di sempre, e gli osservatori internazionali ripetono da tempo che le spinte nazionaliste nei Balcani sono più vive che mai, il simbolo di integrazione tra gli uomini e le donne vive l’anniversario dei 30 anni in una sorta di equilibrio sospeso. Aprile è il mese di Ramadan e nei locali di Baščaršija (il centro storico d’epoca ottamana dove i magneti da frigo si appiccicano sui pochi turisti e, se sei donna e non porti il velo, puoi sentirti minoranza) c’è chi vuole continuare a vivere come se la Jugoslavia esistesse ancora.

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"Comunisti come ferraristi"

“Eravamo comunisti, sì, ma perché ci piaceva il rosso”, scherza in un tagliente italiano Franko Jankovič, sloveno di Lubiana che per Sarajevo si strapperebbe le vesti. Sopra il bancone della ćevabdžinica (un tipico locale) e vicino ad un cumulo di lagenarie (delle zucche ornamentali) riposa un bianco e nero di Tito. Il gestore guarda la televisione e fuma, circondato dai consueti personaggi che compongono la tragedia balcanica in salsa postsocialista. “Sono venuto a Sarajevo assieme alla compagna Valerija Skrinjar Tvrz, domani la sindaca le darà un premio”. Novantaquattro anni il prossimo 8 novembre, la Skrinjar è una delle ultime colonne viventi della lotta di liberazione jugoslava. “Una leggenda” racconta Franko, che davanti a uno slivovitz (gelido distillato di prugne) sostiene di aver servito Ike e Tina Turner, nell’albergo di Lubiana dove ha lavorato fino al 1979. “Lui era uno stronzo ma che bei tempi, per me la Jugoslavia non è mai morta, hanno tentato di ucciderla ma non ce l’hanno fatta”.

Quando l'occidente pensa di aver capito

Nei Balcani non bisogna mai dare nulla per scontato e il caos dopo il giudizio tranchant è dietro l’angolo. Qui c’è bisogno di costruire ponti, non di gente che pontifica. Quando nel cinema balcanico viene preso in giro il giornalismo occidentale i registi lo fanno anche perché le genti di questa penisola si sentono spesse incomprese da chi pensa di comandare il mondo. I cortocircuiti sono trappole per i deboli di cuore e i blackout spaventano solo chi è ossessionato dell’energia elettrica. Così, anche a Sarajevo, tutto diventa complicato. Il 5 aprile 1945 segna una data importante per i suoi cittadini. In quell’occasione i nazisti vennero definitivamente cacciati dalla città. Vicino ai fiori per le vittime dell’assedio, sventolano bandiere e sciarpe, in una sovrapposizione del ricordo che manderebbe in crisi qualsiasi fervente sostenitore delle memorie uguali per tutti. “Rossi come i ferraristi” scherza Franko.

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Nazione e religione, che pasticcio 

È una questione di ponti che uniscono, Sarajevo. Ed allora la mappa delle commemorazioni si confonde tra i canti partigiani, timidamente accennati alla porta di Višegrad. Subito sotto, l’incravattato di turno con scorta al seguito, viene interpellato dalle televisioni locali. “A Sarajevo ognuno può essere un ministro, ogni cantone ne ha uno” raccontano Simone Modugno e Linda Caglioni, autori di un bel reportage video pubblicato di recente da Internazionale. “La casella delle nazionalità e delle religioni è meglio se le barri: pensa al tuo futuro, mi raccomando”. Adi (nome di fantasia) è nato a Berlino ma lavora in un albergo non distante dal centro di Sarajevo. Il padre ha combattuto nella guerra ed oggi non c’è più. “Siamo tornati io e mio madre, ma non sono molto contento. Qui è tutto molto difficile. Non è una novità che qui ti chiedano in quale dio credi quando fai un colloquio di lavoro”. C’è chi dice che è prassi dovuta all’organizzazione delle ferie. Tra Natale e Capodanno ortodosso, Pasqua, Ramandan e altre feste, c’è da organizzare il calendario.

Confusione di Stato e il futuro

I serbi, i bosgnacchi, i bosniaci, i croati, tutti dentro lo stesso calderone in una confusione di Stato che solo qui si può scrivere sia maiuscolo che minuscolo. Sull’agitazione dei vertici della Republika Srpska c’è chi però non vede una minaccia concreta. “I capi alzano la voce perché la mano di Mosca è impegnata nella guerra – così Anes, quarantenne che da piccolo fuggì dall’assedio passando lungo il famoso tunnel -. Paradossalmente per noi a Sarajevo le cose vanno bene così”. Il muezzin canta. Un gruppo di ragazzini sogna di diventare Dzeko. Un paio di adolescenti si accompagnano sottobraccio, mentre un giovane suona la fisarmonica davanti alla cattedrale e chiede la carità. Quando al tramonto la luce del sole scivola dietro le montagne innevate, ecco che la guerra è solo un brutto ricordo. “Finisci sempre lì, nei discorsi, ma i giovani vogliono andare oltre”. Quando però il pallone finisce in rete e i bambini urlano di gioia, ecco che la magia di questa città diventa monito per quel mondo che è ancora capace di ascoltare. “Fino a quando nei Balcani le cose vanno bene allora tutta l’Europa può dormire sonni tranquilli”.   

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