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Giovedì, 18 Aprile 2024
La protesta / Stati Uniti d'America

La svolta radicale di Israele preoccupa gli Usa

È gelo tra Tel Aviv e l'amministrazione Biden a cui non piace la deriva oltranzista del governo di Netanyahu che sta scatenando proteste nel Paese e un aumento delle violenze in Cisgiordania

A più di quattro mesi dal ritorno alla guida del governo di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu non ha ancora ricevuto alcun invito alla Casa Bianca. Per altri capi di Stato o di governo potrebbe essere una cosa normale, ma invece trattandosi di Israele è il segnale di un malcontento. Degli ultimi 13 premier solo due hanno atteso più a lungo prima del loro ricevimento ufficiale da parte del principale alleato della nazione a livello mondiale. La svolta radicale del governo più a destra della storia del Paese stanno scatenando forti proteste tra i cittadini, soprattutto a causa di una controversa riforma del potere giudiziario, ma che sta preoccupando anche la comunità ebraica presente negli Usa e chiaramente lo stesso presidente Joe Biden.

Il fulcro del dissenso s’incarna nel rifiuto della nuova riforma della giustizia proposta da Netanyahu. Questa mossa permetterebbe al governo israeliano di indebolire la magistratura del Paese, allentando i controlli sull’operato dell’esecutivo. Nello specifico, questa ristrutturazione della giustizia consentirebbe al governo di nominare i giudici e, soprattutto, al Parlamento di annullare le decisioni della Corte Suprema con una maggioranza semplice, anche di un solo voto, mentre al momento serve una maggioranza qualificata dei due terzi. Tel Aviv afferma di voler arginare l’influenza dei giudici non eletti sul lavoro dei deputati, ma i critici temono un indebolimento di quello che è stato negli anni da sempre un garante della laicità dello Stato e dei diritti civili, in un momento in cui i partiti religiosi più radicali sono al governo e hanno anche ruoli chiave sul controllo delle zone palestinesi occupata. Proprio in Cisgiordania sta registrando negli ultimi mesi un aumento delle violenze tra palestinesi e coloni e delle incursioni, quasi sempre mortali, dei soldati israeliani.

Come racconta il New York Times, la reazione della comunità ebraica negli Usa è stata insolitamente forte, a Los Angeles il rabbino Sharon Brous ha pronunciato un sermone dal titolo "Le lacrime di Sion", con il quale ha esortato la sua congregazione a combattere il "regime illiberale e ultranazionalista" di Netanyahu. Il mese scorso le Federazioni ebraiche del Nord America, colosso filantropico con una capacità di raccolta e spesa intorno ai 3 miliardi di dollari annui, ha inviato una lettera aperta al primo ministro israeliano e a Yair Lapid, leader dell’opposizione, manifestando la propria opposizione al principio dell’indebolimento dell'indipendenza del potere giudiziario.

Il fronte politico statunitense è diviso, con democratici e progressisti maggiormente disposti ad aprire un dialogo con Netanyahu rispetto ai conservatori, ma a far la differenza sono i gruppi moderati e apartitici, generalmente in disparte nel momento di dibattiti divisivi su Israele, oggi tra i più impegnati nella manifestazione. "Il messaggio che Washington vuole inviare è chiaro: se persegui politiche discutibili non hai diritto a sederti nello Studio ovale", ha detto David Makovsky, ex consigliere dell’inviato speciale per i negoziati israelo-palestinesi. "Il nuovo governo sta corteggiando il disastro", ha dichiarato l’ex sindaco della città di New York, Michael R, Bloomberg, difensore di lunga data delle iniziative politiche israeliane, in un saggio pubblicato sul New York Times lo scorso 5 marzo. Bloomberg ha esplicitato la sua preoccupazione per un possibile esito in grado di minare la stabilità economica e politica del Paese, se non addirittura "la stessa democrazia su cui si erge la nazione".

Al momento comunque gli investimenti militari di Washington verso Tel Aviv, superiori ai 3 miliardi di dollari all’anno, non hanno subito alcun contraccolpo secondo Reuters. Come descritto da Euractiv, Biden e Netanyahu si conoscono da decenni e il canale telefonico tra i due non è mai stato interrotto. Tuttavia, il mancato invito alla Casa Bianca evidenzia la volontà di Washington di non appoggiare una virata politica di tipo radicale. Secondo alcuni critici, dietro l’attesa dell’amministrazione Biden si nasconderebbe l’impossibilità, o la contrarietà, di prendere decisioni più energiche in risposta alla condotta dell’esecutivo israeliano.

Questo giustificherebbe il linguaggio definito "frustrante e convenzionale" da Sarah Yerkes, ex funzionaria presso il Dipartimento di Stato sulla politica nei confronti di Israele e dei palestinesi, che spesso caratterizza le dichiarazioni statunitensi che concernono l’alleato mediorientale. "Stavolta non possono essere trattati con gli stessi guanti con cui sono sempre stati trattati perché sono sulla buona strada per non essere più una democrazia", ha dichiarato Yerkes. Un pensiero condiviso da diverse figure politiche americane.

Il democratico Chris Murphy, membro della commissione per le relazioni estere del Senato, spera in una risposta chiara di Washington nei riguardi di Israele, mentre un gruppo separato di 92 parlamentari ha indirizzato una lettera a Biden precisando come questa riforma della giustizia darebbe potere a coloro che mirano all’annessione della Cisgiordania, generando un conseguente fallimento della politica dei due Stati, cara alla Casa Bianca. "Questa crisi sta risuonando tra gli ebrei americani in modo diverso rispetto alle precedenti (…) è una crisi della democrazia, non di sicurezza", ha affermato Halie Soifer, amministratore delegato del Liberale Jewish democratic council of America. Dichiarazione cui ha fatto eco quella di Rick Jacobs, rabbino e presidente dell'Union for Reform Judaism, con sede a New York, il quale ha descritto la Corte Suprema israeliana come "la più importante protettrice dei diritti umani e civili".

Nel frattempo, le strade di Israele continuano ad attrarre manifestanti. Ieri circa 200 persone si sono radunate davanti al consolato americano di Tel Aviv, muniti di cartelli e striscioni contro Netanyahu ed il ministro della giustizia, Yariv Levin. Le agitazioni sono iniziate nella prima mattina con l’intenzione di condurre una lunga protesta di “resistenza crescente contro la dittatura”, alcuni manifestanti hanno dipinto una linea rossa in prossimità della Corte Suprema del Paese, quale simbolo del legame diretto tra l’indipendenza dei tribunali e la libertà di parola. Ci sarebbero stati cinque arresti per il danneggiamento di beni pubblici, mentre l’esercito popolare avrebbe iniziato a reclutare uomini tra le file degli ultraortodossi della città di Bnei Brak, il tutto mentre l’esecutivo porta avanti il suo discusso disegno di ristrutturazione giudiziaria della democrazia israeliana. 

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