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Martedì, 23 Aprile 2024
L'analisi

Le mani di Erdogan (ancora) sulla Turchia

Il 'Sultano' sembra destinato a una facile vittoria al ballottaggio, grazie al suo controllo sull'apparato statale e sull'informazione e a una base di sostenitori fedelissimi, ma anche al fatto che l'oppositore Kilicdaroglu non è riuscito a presentarsi come un'alternativa credibile

Le sue scelte politiche hanno portato un'inflazione a livelli record che ha impoverito la popolazione, il suo governo è accusato di non aver risposto in maniera adeguata e tempestiva ai catastrofici terremoti che solo tre mesi fa hanno ucciso 50mila persone, il suo autoritarismo e la riduzione della libertà di espressione sto portando a rivolte tra i giovani, per la prima volta si è dovuto confrontare con un'opposizione unita e compatta. Eppure Recep Tayyip Erdogan sembra destinato a restare alla guida della Turchia, dopo essere stato 20 anni al potere prima come premier e poi come presidente.

Erdogan riceve l'endorsement degli ultranazionalisti, il 'Sultano' verso la riconferma

Al primo turno, lo scorso 14 maggio, il leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) ha conquistato il 49,5% dei consensi contro il 44,9% del suo principale sfidante, il laico Kemal Kilicdaroglu. Quest'ultimo era visto da molti, soprattutto all'estero, come l'uomo che avrebbe potuto dare una svolta al Paese, renderlo più democratico e migliorare le relazioni con gli alleati Occidentali. Kilicdaroglu ha avuto il merito di riuscire a unire nella sua Alleanza per la nazione i sei principali partiti dell'opposizione, e ad ottenere addirittura l'endorsement dei curdi del Partito democratico dei popoli (Hdp). Per tutta la campagna elettorale ha corteggiato gli elettori promettendo di sistemare l'economia, ripristinare le libertà civili e costruire una società più inclusiva, utilizzando uno stile in netto contrasto con la retorica polarizzante e divisiva di Erdogan. Ma non è bastato, nonostante il risultato elettorale sia da considerarsi comunque buono, anzi ottimo. L'ultima volta che Erdogan si è presentato alle elezioni, nel 2018, ha ottenuto il 52% dei voti al primo turno, battendo il più vicino dei suoi tre sfidanti di 22 punti percentuali.

"Di fatto Erdogan ha perso il primo turno e se la competizione fosse stata più equa l'opposizione avrebbe potuto anche vincere", ci dice Amanda Paul, Senior Policy Analyst dell'European policy centre (Epc), uno dei think tank più autorevoli di Bruxelles. Nel Paese l'informazione è di fatto totalmente nelle mani di Erdogan. Il suo sfidante è apparso a malapena sull'emittente di Stato Trt, mentre i discorsi del 'Sultano' venivano trasmessi integralmente. Una recente analisi delle trasmissioni della tv ha rilevato che in aprile Kilicdaroglu ha ricevuto solo 32 minuti di trasmissione, Erdogan 32 ore. E anche molti organi privati di informazione sono di proprietà di uomini d'affari fedeli al presidente, il che ha garantito un flusso costante di notizie positive, con poca attenzione alle accuse di corruzione o agli errori del governo.

A cinque giorni dal voto Erdogan aumenta del 45% gli stipendi pubblici

Ankara ha costretto alcune organizzazioni giornalistiche critiche nei suoi confronti a chiudere, ne ha multate altre per la loro copertura, perseguendo anche alcuni giornalisti. Il gruppo Reporter senza frontiere piazza la nazione al 165esimo posto per libertà di stampa in una classifica di 180 Paesi. Grazie al suo controllo quasi totale sull'apparato statale Erdogan ha potuto poi mettere in campo programmi di spesa populisti: ha aumentato il salario minimo tre volte nell'ultimo anno e mezzo, dato agli statali un aumento del 45% in busta paga a soli cinque giorni dalle elezioni. Da anni sta accentrando sempre più poteri nelle sue mani esautorando il Parlamento.

Nonostante questo per Paul la democrazia turca starebbe ancora resistendo, seppur sia chiaramente stata indebolita. "La democrazia turca rimane viva e vegeta, lo abbiamo visto durante le elezioni, con l'alta affluenza (quasi 89%, ndr), il fatto che il processo si sia svolto in modo relativamente tranquillo, anche grazie alle circa 200mila persone che le hanno sorvegliate e hanno monitorato il processo. Tuttavia, se la democrazia sopravvive, e lo abbiamo visto anche nelle elezioni municipali di qualche anno fa, rischia comunque di indebolirsi. Ma la gente sta lottando contro questo rischio e lo stanno facendo persone di ogni provenienza".

Se Kilicdaroglu non è riuscito a scalzare i suo rivale è anche perché di fatto non ha convinto del tutto il Paese. Per provare a spodestare Erdogan ha messo insieme sei partiti che vanno dai nazionalisti di destra, ai laici convinti e agli islamisti, appoggiati addirittura dalla sinistra curda. E in tanti hanno dubitato che un gruppo così eterogeneo possa essere capace di gestire il Paese e portarlo fuori dalla crisi economica. "I turchi vogliono stabilità, una cosa che molti hanno creduto che l'alleanza dell'opposizione non fosse in grado di garantire. Non hanno avuto abbastanza fiducia che il gruppo guidato da Kilicdaroglu potesse sistemare le cose, anche nelle zone terremotate. Parti della società sempre più religiose e poco istruite (il sistema educativo turco è peggiorato notevolmente negli ultimi anni, ndr) si sono schierate a favore di Erdogan, che sa giocare molto bene anche la carta del nazionalismo".

Erdogan può davvero perdere le elezioni?

Pur essendo una società prevalentemente musulmana, la Turchia moderna è stata creata come uno Stato fortemente laico da Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore del Partito Popolare Repubblicano (Chp) ora guidato da Kilicdaroglu. Per decenni nel Paese è stata tenuta fuori dalla vita pubblica la maggior parte dei segni esteriori della religione. Nei suoi anni al governo Erdogan ha allentato queste restrizioni, tra cui il divieto per le donne che lavorano nello Stato di indossare il velo e ha ridato centralità alla religione. Il presidente conserva un fervente seguito, in particolare tra gli elettori della classe operaia, delle zone rurali e tra quelli più religiosi, che amano la sua retorica sulla difesa della Turchia contro una serie di nemici interni ed esteri. "Erdogan ha un nucleo di elettori che voterà per lui a prescindere da tutto. Per esempio, ha coltivato una profonda lealtà da parte dei sostenitori conservatori e religiosi rafforzando i valori islamici nel Paese. È anche un oratore e un promotore elettorale di grande talento, che contribuisce ad attirare i voti. Kilicdaroglu non ha questo dono", né una base così forte e fedele, spiega Paul.

Quando Erdogan per la prima volta si presentò sulla scena politica nazionale come primo ministro nel 2003 venne considerato un nuovo tipo di democratico islamico, favorevole al libero commercio e interessato a mantenere forti legami con l'Occidente. Durante il suo primo decennio, complice la fine dei programmi di austerità imposti alla nazione dall'Fmi durante la crisi finanziaria e valutaria del 2000-2001, l'economia turca ha registrato un boom, facendo entrare milioni di persone nella classe media. Ma più recentemente, dopo aver affrontato proteste di piazza di massa contro il suo stile di governo, essere diventato presidente nel 2014 ed essere sopravvissuto a un fallito tentativo di colpo di Stato nel 2016, Erdogan ha epurato i suoi nemici dalla burocrazia statale, limitato le libertà civili e accentrato il potere nelle sue mani. E ha iniziato anche ad avere una politica estera molto più aggressiva, anche nei confronti dei suoi alleati occidentali.

E anche da questo punto di vista le cose sono solo destinate a peggiorare. "È improbabile che Erdogan ammorbidisca la sua posizione, poiché la politica estera turca rimarrà la stessa e ciò continuerà a creare attriti con i partner. Continuerà a perseguire una politica indipendente e assertiva nel vicinato e al di fuori di esso, sforzandosi di rendere il Paese meno dipendente dall'Occidente, ad esempio dando ulteriore priorità all'industria della difesa nazionale", ma nonostante questo "dato che la Turchia è un importante attore regionale e persino globale sotto molti aspetti, gli Stati Uniti e l'Unione europea dovranno continuare ad avere buoni rapporti con lui e a dialogare su più questioni", avverte l'analista dell'Epc.

Da mesi Erdogan sta bloccando la richiesta della Svezia di entrare nella Nato, di cui la Turchia è membro, e sta di fatto ricattando il Paese per ottenere concessioni sulla vendita di armi e e sull'estradizione di presunti terroristi, con gli altri membri dell'Alleanza che stanno abbozzando in silenzio, pur non essendo felici. Pur avendo condannato l'invasione dell'Ucraina ed aver inviato aiuti al governo di Kiev, Erdogan si è rifiutato di aderire alle sanzioni occidentali contro la Russia di Vladimir Putin, e ha anche aumentato i legami commerciali con Mosca, di fatto aiutando la Federazione ad aggirare parte delle misure punitive imposte da Bruxelles.

Ma l'Europa è destinata a continuare a sopportare le sue intemperanze e le sue posizioni, anche perché a lui il blocco ha da tempo appaltato di fatto la gestione di una parte dei flussi migratori in arrivo nel continente. La Turchia ospita 3,5 milioni di rifugiati siriani fuggiti dal conflitto che per 12 anni ha devastato il loro Paese. Nel 2016 è stato siglato un accordo tra Bruxelles e Ankara, che mirava a fermare l'afflusso rimandando in Turchia i migranti sorpresi a entrare irregolarmente in Grecia. In cambio, Bruxelles ha promesso di dare ad Ankara 6 miliardi di euro per aiutare ad accogliere i siriani nei campi messi in piedi nel Paese, oltre alla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi. E l'Ue non vuole rinunciare a questo aiuto.

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