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Giovedì, 25 Aprile 2024
A rischio la svolta green globale / Cina

Perché gli Usa bloccano le importazioni da una regione della Cina

Non solo i pannelli solari e il cotone, ma anche la produzione delle batterie per le auto elettriche è nel mirino statunitense

La guerra in Ucraina e il cambiamento climatico hanno evidenziato una realtà inevitabile: è necessario diversificare l’approvvigionamento energetico, senza dimenticare gli obiettivi climatici fissati durante la Cop21 di Parigi. Eolico, fotovoltaico ed elettrico sono le principali fonti per garantire il tanto ambito abbassamento delle temperature globali di 2 gradi Celsius. Le grandi potenze mondiali sono così costrette a guardare alle fonti energetiche green per frenare il declino dell’intero pianeta. 

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In questo contesto, i diversi paesi del mondo hanno avviato un percorso verso la neutralità carbonica, come quello iniziato dalla Cina: il gigante asiatico, il secondo paese che è responsabile di più della metà delle emissioni globali di CO2, vuole raggiungere prima del 2060 la neutralità carbonica, attraverso il conseguimento di un equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di carbonio.

A rischio la svolta green globale

Per garantire il raggiungimento dell’obiettivo climatico - apparentemente di lunga durata - arriva in aiuto la supply chain, la catena di approvvigionamento globale dei materiali fondamentali per la produzione di pannelli solari, come il polisilicio. La Cina è il paese che domina il mercato globale del fotovoltaico, grazie alla sua disponibilità di energia, spazio e lavoro a basso costo, soprattutto quello degli uiguri della regione nordoccidentale dello Xinjiang.

La regione cinese vale da sola quasi il 50 per cento della produzione mondiale di polisilicio, mentre l’intera Cina detiene una quota dell’80 per cento dell’offerta globale di questo materiale. La leadership cinese nel mercato globale preoccupa gli Stati Uniti, che hanno già limitato le importazioni di silicio da cinque società cinesi accusate di essere coinvolte nella violazione dei diritti umani degli uiguri ed altre minoranze etniche in Cina. Il Dipartimento del Commercio statunitense ritiene che queste cinque aziende traggano profitti dal lavoro forzato degli uiguri.

Anche la produzione delle batterie agli ioni di litio per le auto elettriche è nel mirino delle attenzioni statunitensi. La Cina, che produce tre quarti delle batterie agli ioni di litio del mondo, sta superando i maggiori colossi come l'Argentina, l'Australia e la Repubblica Democratica del Congo nell’estrazione di materiali necessari per il loro assemblaggio. 

Il ruolo della manodopera uigura

Secondo Washington, che accusa Pechino di “genocidio” commesso nei confronti degli uiguri, sono diversi i settori produttivi che impiegherebbero manodopera coatta e a basso costo degli uiguri nello Xinjiang. Il governo cinese però nega la presenza di lavoro forzato nello Xinjiang, definendo la questione come “la menzogna del secolo” americana. 

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Tuttavia, Pechino riconosce l'esistenza di un programma di trasferimento di manodopera degli uiguri e altre minoranze etniche nelle regioni rurali del sud della Cina. Dal 2017 al 2020, il governo dello Xinjiang ha avviato un trasferimento coatto di 100mila persone dalla regione al sud della Cina da inglobare in nuove filiere produttive. Decine di società statali, come la Xinjiang Nonferrous Metal Industry Group, sono state incaricate dal governo di Pechino di assorbire 10mila di quei lavoratori, in cambio di sussidi e bonus.

Aziende come lo Xinjiang Nonferrous Metal Industry Group stanno assumendo un ruolo sempre più importante nella catena di approvvigionamento di batterie elettriche e di pannelli fotovoltaici. Il nome del conglomerato di imprese che fornisce alle multinazionali di tutti il mondo i materiali più ricercati sulla terra - tra cui litio, nichel, manganese, berillio, rame, utilizzati in un'ampia varietà di prodotti come farmaci, gioielli, materiali edilizi e prodotti elettronici - è finito sotto i riflettori statunitensi per il suo ruolo nel coinvolgimento degli uiguri sottoposti a lavori forzati. 

Il freno degli Stati Uniti

È però difficile tracciare con precisione dove vanno a finire i metalli prodotti dallo Xinjiang Nonferrous: alcuni sono stati esportati negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, in Giappone, in Corea del Sud e in India, secondo le dichiarazioni dell'azienda e i registri doganali; altri, invece, sono stati spediti a grandi produttori cinesi di batterie per auto elettriche, che a loro volta - direttamente o indirettamente - hanno fornito le principali le case automobilistiche americane, le compagnie energetiche e le forze armate statunitensi.
La complessità del tracciamento della catena di approvvigionamento dei materiali preziosi, così come il cotone (di cui lo Xinjiang è uno dei principali produttori al mondo), ha allarmato Washington. 

Per questo, il governo statunitense ha introdotto l’Uygur Forced Labor Prevention Act, la norma entrata in vigore oggi 21 giugno, per impedire l’ingresso nel paese di prodotti fabbricati nello Xinjiang da manodopera uigura. 
La legge pone dei limiti chiari: richiede agli importatori statunitensi, che hanno un legame con lo Xinjiang, di produrre documentazione che dimostri come i loro prodotti e ogni materia prima con cui sono realizzati non siano stati realizzati con il lavoro forzato degli uiguri. Si tratta però di un'impresa difficile, data la complessità e l'opacità delle catene di approvvigionamento cinesi.

Con la nuova legge degli Usa, molti prodotti potrebbero essere bloccati al confine statunitense, e ciò potrebbe determinare conseguenze per le industrie globali che dipendono dai materiali che arrivano dal Xinjiang, incluso il settore automobilistico e quello dell’energia rinnovabile.

Le industrie dell'abbigliamento, alimentare e solare sono già state scosse da analisi governative e giornalistiche che collegano le catene di approvvigionamento nello Xinjiang al lavoro forzato. Basti pensare che attualmente circa tre milioni di tonnellate di scorte invendute di cotone cinese sono state rifiutate dai clienti esteri del settore della moda, tra cui H&M, Zara e Nike, nonostante il filato sia attualmente tra i più economici al mondo.

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E cosa fanno le imprese europee?

La questione è controversa anche per l’Europa. Le aziende del Vecchio Continente, come testimonia il capo della Camera di Commercio Ue in Cina Joerg Wuttke, hanno difficoltà a garantire che i prodotti che arrivano dalla Cina non siano passati attraverso le mani degli uiguri. I colossi europei dovrebbero disporre di un team di revisori esterni per controllare e certificare l’assenza di manodopera uigura nella catena di approvvigionamento. Ma al momento questa possibilità è difficile e costosa.

La legge statunitense e i timori delle aziende europee dimostrano quanto la Cina sia centrale nella catena di approvvigionamento. A fronte di un paventato disaccoppiamento, sorge una domanda: quanto siamo disposti a rinunciare pur di tutelare i diritti umani degli uiguri dello Xinjiang? 
 

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