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Venerdì, 29 Marzo 2024

Andrea Maggiolo

Giornalista

25 aprile: parliamo di Ignazio (ma non La Russa, vi prego)

25 aprile. Parliamo di Ignazio. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, erede tra i più puri e riconoscibili della tradizione missina, deraglia e sostiene che l'antifascismo non è presente nella Costituzione. Ma non vale la pena, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, perdere tempo facendo l'esegesi delle parole di un uomo politico per il quale il termine "antifascismo" è fumo negli occhi. Uno che apprezza senza riserve i busti del Duce. Uno che se la prese con il vescovo di Ventimiglia che non voleva acconsentire a celebrare la commemorazione della morte di Mussolini un 28 aprile di qualche anno fa. 

Cosa pensi davvero e da dove provenga Ignazio La Russa non è certo un segreto. Figlio del segretario del partito fascista di Paternò (fa Benito di secondo nome), è in politica da mezzo secolo abbondante. Nel 1971 era già responsabile del Fronte della Gioventù, l'organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano. Non rinnega nulla del suo passato: consigliere comunale, regionale, deputato, senatore, ministro. Non è mai stato timido nel rivendicare la sua storia, anche se dopo la svolta di Fiuggi per un po' divenne più finiano di Fini. Ma il cuore era sempre là, in fondo a destra. Ha celebrato pubblicamente, di recente, da seconda carica dello Stato, persino l'anniversario della nascita del Msi: "Me ne frego della liturgia, la verità è che, quando esprimo le mie idee, rosicano. Se avessero voluto uno solo per dirigere il traffico dell'aula di Palazzo Madama, avrebbero potuto eleggere un semaforo. Io non rinuncio, e non rinuncerò mai, al mio pensiero", diceva petto in fuori a fine 2022.

Durante un diverbio con il governatore pugliese Michele Emiliano, pizzicato sulle sue origini politiche, arrivò a dire: "Siamo tutti eredi del Duce, se intendi eredi di quell’Italia dei nostri padri, dei nostri nonni e dei nostri bisnonni". Provocazioni, battute, ci si giustifica sempre così quando si oltrepassa la linea rossa del buonsenso, e del buongusto, no? Chi è Ignazio La Russa lo sappiamo fin troppo bene. Poche settimane fa, a precisa domanda di un giornalista ("Celebrerà il 25 aprile?"), rispondeva: "Non devo rassicurare nessuno. Certo non andrò a infilarmi in qualche corteo per beccarmi fischi e uova marce. Le ricordo però che, da ministro della Difesa, come suggeriva Luciano Violante, ho già omaggiato i partigiani morti e i morti che, credendo in un'altra ideologia, stavano dall'altra parte".

Il problema è che una persona normale, con le giornate moderatamente impegnate, non dovrebbe sprecare un secondo del proprio tempo interrogandosi sulle elucubrazioni mentali di un ex missino sul 25 aprile.  Vita sprecata. Tutto è fin troppo chiaro. Cosa ne pensino a destra è chiarissimo. Per loro non è una festa, è un contrattempo sul calendario da superare agilmente misurando le parole. Ogni commento sulla Liberazione da parte di esponenti di quella precisa tradizione politica si basa sul tentativo più o meno sgangherato di mettere tutti i morti sullo stesso piano. Peccato che non ci sarebbe stata libertà viva, fondante, in Italia senza partigiani, senza quel senso di affrancamento dal fascismo e dalla guerra che ne è conseguita. Va bene la pacificazione, ma occorre saper distinguere quale fosse la parte giusta e quale quella sbagliata.

Il 25 aprile è, o dovrebbe essere, "semplicemente" la festa della Liberazione dal nazifascismo. Memoria storica condivisa. Ancora oggi per una parte consistente di italiani è invece una festa "comunista", travisando la verità storica. È la festa dell'antifascismo, fronte ampio con cattolici, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali, azionisti. Ignazio La Russa, che è un avvocato, questo lo sa benissimo. Ma la destra italiana non si riconosce appieno, ora meno che mai, rinvigorita dal successo elettorale di Fratelli d'Italia nelle elezioni del 25 settembre, in tutti i valori costituzionali dell'antifascismo che stanno alla base della lotta al nazifascismo. O se lo fa, non lo dice apertamente per chiaro tornaconto elettorale e di consenso (Giorgia Meloni meglio di altri sembra sapere benissimo quando può spingere sull'acceleratore della propaganda becera e quando invece non è il caso).

Per tanti anni i partigiani sono andati a parlare con gli studenti portando le loro testimonianze. Nel 2023 chi c'è ancora è molto anziano, tanti altri se ne sono andati, quindi anche il loro ruolo in occasione del 25 aprile sta scomparendo. Un rimedio c'è, c'è sempre. Come l'anno scorso, come ogni anno, anche quest'anno vale pena di accedere a documenti limpidi, alle parole scritte con mezzi di fortuna da coloro che, tanti anni fa, di fronte alla morte, non recitarono la parte dell'eroe o del superuomo. Fecero la cosa giusta. Mezzo secolo fa il Comune di Torino regalava a tutti gli studenti di terza media una copia (edizione Einaudi oggi considerata da collezione) delle "Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana". Giovani, a volte giovanissimi, che andavano incontro alla morte con una lucidità che, oggi, fa venire i brividi.

Sfogliandolo, l'occhio cade sul nome Ignazio. La Russa, ovviamente, per fortuna non c'entra.

Ignazio è Ignazio Vian (nome di battaglia "Azio") un giovane insegnante cattolico di Roma, ma di origine veneziana. Un uomo che quando arriva il momento di fare le scelte che contano, diventa un partigiano. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, dopo l'8 settembre 1943 riunisce gruppi di militari e diventa il comandante delle formazioni che combattono il 19 settembre di quell'anno contro reparti tedeschi nella zona di Boves. Raccoglie con sé circa centocinquanta uomini e dà vita così a una delle prime formazioni partigiane: comincia a combattere subito, a differenza di altri gruppi che preferiscono attendere.

A fine 1943, sfuggito a un rastrellamento, passa in val Corsaglia alle dipendenze delle Formazioni Autonome Mauri, nelle quali milita sino all'attacco tedesco del marzo 1944, nel corso del quale la formazione viene quasi totalmente distrutta. Instancabile, con i superstiti inizia la riorganizzazione del settore, prendendo contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale di Torino. Verrà arrestato (una spia lo riconosce alla stazione) nell'aprile 1944. Passa attraverso la sede delle SS hitleriane (si erano sistemate presso l'elegante Albergo Nazionale) e infine nel buio delle carceri "Nuove". A Torino lo torturano quotidianamente per farlo parlare, invano. Lo impiccano senza processo il 22 luglio 1944 in corso Vinzaglio, insieme ad altri partigiani, per mano di tedeschi e alla presenza di reparti fascisti. Aveva solo 27 anni. I cadaveri resteranno esposti una settimana, come monito alla popolazione. 

L'anno seguente, nel maggio 1945, nell'Italia appena liberata, l'albero dell'impiccagione di Vian viene ornato spontaneamente dalla popolazione: fiori e lettere ai martiri. Sotto la fotografia di Ignazio Vian, la scritta "Italiano ricordati le sue ultime parole: sangue di martiri, semenza di eroi". Una pagnotta verrà ritrovata nella sua cella, e sarà poi avventurosamente consegnata dai compagni di prigionia alla famiglia. Vi aveva scritto sopra "Coraggio mamma". Con il sangue sul muro della cella aveva scritto "Meglio morire che tradire". È l'unica foto (la potete vedere qui sotto) contenuta nel volume delle lettere di condannati a morte della Resistenza. La forza di quest'immagine resiste allo scorrere del tempo. Ignazio Vian, dunque. Francamente, il solo Ignazio di cui vale la pena parlare ogni 25 aprile. 

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