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Martedì, 23 Aprile 2024
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Redazione

Vi spiego perché gli anticorpi monoclonali non sono (ancora) una “cura miracolosa” contro il coronavirus

Mentre le notizie sulle procedure di approvazione dei vaccini aprono uno spiraglio di luce sui prossimi mesi, e si attende con ansia l’inizio delle campagne di vaccinazione in Europa per i prossimi giorni, in Italia ogni tanto entra nel dibattito la questione sull’uso degli anticorpi monoclonali.

Gli anticorpi monoclonali rappresentano, idealmente, un meccanismo di azione antivirale (diretto, quindi, contro l’infezione e la replicazione virale, e non contro gli effetti dell’infezione) molto interessante e promettente. Mentre anticorpi monoclonali sono da diversi anni in uso clinico per una varietà di malattie autoimmuni e oncologiche, il loro impiego quali antiinfettivi (antibatterici e antivirali), pur intensamente studiato, non è ancora stato coronato da successo salvo che in un paio di casi. Con l’emersione della malattia COVID-19, le piattaforme sperimentali messe a punto negli anni passati per altre malattie (ad esempio Ebola, negli ultimi anni) sono state rapidamente riconvertite verso il virus SARS-CoV2. In pochi mesi, due aziende Ely Lilly e Regeneron sono arrivate a chiedere l’uso emergenziale a FDA, che, ai primi di novembre, lo ha concesso.

Tuttavia, i risultati pubblicati, seppur interessanti e promettenti da un punto di vista scientifico, sono ben lontani dall’aver rispettato le grandi attese che avevano suscitato. Ad esempio, se ci focalizziamo sul bamlavinimab, l’anticorpo prodotto da Ely Lilly, l’azienda stessa e poi la FDA indicano che l’impiego del prodotto NON ha nessun effetto nel ridurre la mortalità nel paziente ricoverato; rischia di peggiorare i sintomi del paziente ospedalizzato; ha un modesto effetto sul paziente NON ospedalizzato ma ad alto rischio (vedremo tra un attimo cosa significa), riducendo la probabilità di ricovero dal 6.9 al 1.6% entro i 28 giorni dalla somministrazione. Ciononostante, la FDA ha ritenuto di dover concedere l’uso di emergenza, e da circa un mese il prodotto è impiegato negli Stati Uniti.

Alcuni ricercatori, nel suo piccolo anche chi scrive, già avevano segnalato dei possibili limiti dell’impiego di questi anticorpi, che si aggiungono alla loro bassa efficacia. Vale la pena elencarli. Il primo è che per aver una qualche utilità, questi anticorpi devono essere impiegati molto precocemente nell’infezione, idealmente entro le 48-72 ore dal contagio. Sappiamo bene che nella vita reale in questo lasso di tempo in genere non si è fatto neppure il tampone, per cui selezionare pazienti su cui il trattamento può avere effetto è molto difficile. Il secondo problema è che questi anticorpi richiedono l’infusione endovena. L’infusione dura un’ora, e il paziente deve rimanere in osservazione per almeno un’altra ora, in ospedale o ambulatorio, con la possibilità di intervenire contro lo shock anafilattico. Infatti, è nozione comune che l’infusione endovena di peptidi (quali sono gli anticorpi) può dare raramente ma non trascurabilmente, reazioni di shock anafilattico. Attenzione. Questo vuol dire che un paziente diagnosticato positivo con un tampone, ma non ricoverato (altrimenti gli anticorpi non si possono utilizzare, è vietato dalla FDA!), deve lasciare la sua abitazione e recarsi in ospedale a fare l’infusione. Esattamente l’opposto di quello che si deve fare! Un positivo entra in ospedale, occorre creare percorsi sporchi, bisogna sanificare dopo ogni trattamento, la sala di infusione è preclusa ad altri che ne avrebbero bisogno (pensiamo ai malati oncologici che devono fare la chemioterapia!). Quindi, anziché alleggerire la pressione sugli ospedali, il trattamento la appesantisce (ricordiamo che i pazienti che vengono trattati sono pazienti lievi, non seri). Poi c’è un’altra considerazione. L’output produttivo possibile per l’azienda è di un po' meno di 10000 dosi al giorno. Consideriamo che in queste settimane gli Stati Uniti hanno circa 200.000 casi al giorno. Un trattamento costa, negli Stati Uniti, 1270 dollari, più 309 dollari per l’infusione, più il costo (a carico del paziente attraverso le assicurazioni) del tempo ulteriore di osservazione in ospedale. Diciamo quindi 1600/1700 dollari a trattamento. In sé non è che sia una cifra enorme, ma ricordiamoci sempre che stiamo parlando di pazienti non gravi. Report giornalistici in USA indicano, inoltre, che di queste 10,000 dosi al giorno, se ne usano un numero variabile tra il 5 ed il 20%, per i problemi che citavamo sopra e l’impossibilità degli ospedali di usarli. E infine, c’è l’ultimo problema ma certo non il meno importante, che riguarda la definizione di ‘paziente lieve a rischio di aggravamento’. Secondo la definizione accettata dall’uso emergenziale, entrano in questa definizione TUTTI gli over 65, e gli over 55 con almeno una co-morbidità (tra cui diabete o obesità), il che amplia la platea degli ‘aventi diritto’ ad una proporzione molto elevata dei contagiati. Cosa succede se un ospedale ha una sola dose e tre aventi diritto? Chi decide chi trattare? Su quale base? Con quale rischio, per il medico e per l’ospedale, di cause legali intentate dagli ‘esclusi’?

Quindi, queste semplici considerazioni fanno capire come questi anticorpi monoclonali rappresentano un importante progresso scientifico, con finora scarso impatto sulla clinica. I prossimi, magari compresi quelli in sviluppo in Italia in questi mesi, sembrano avere caratteristiche migliori: più potenti,  quindi dosi più basse, quindi costi minori, quindi somministrazione NON endovena. Attendiamo fiduciosi. 

Ma proprio per questo, qual è il motivo per cui una rumorosa minoranza di commentatori sui social e di tanto in tanto ospite di qualche trasmissione televisiva, tra cui anche qualche laureato in medicina, continua ossessivamente a spingere mediaticamente su questi anticorpi, senza citare minimamente i problemi che il loro uso prevede? Anzi, in qualche modo assecondando addirittura una lettura completamente alterata della situazione, con un numero di cittadini che, giustamente esasperati dalla situazione, cominciano a seminare il dubbio che la mancanza di disponibilità sia un operazione voluta per continuare lo stato di emergenza. Questa naturalmente è una follia. Innanzi tutto, in nessuno stato europeo sono disponibili né sono stati richiesti anticorpi monoclonali contro Covid-19, neppure in UK. Le aziende non hanno fatto domanda di autorizzazione né ad EMA né alle agenzie nazionali. E, d’altra parte, come potrebbero, se hanno un output produttivo largamente insufficiente al solo mercato interno? E immaginate quei problemi che abbiamo citato trasportati nel sistema italiano?  E, allora, quale fine nascosto muove personaggi di una certa visibilità sui social media, ma completamente avulsi dalla situazione italiana, e senza nessuna competenza specifica nel caso di Covid-19, ad agitarsi così tanto e ad agitare la pancia di alcuni italiani? Pensiamo davvero che, oggi come in primavera, sia necessario non instillare dubbi, e agitare fantasmi nell’opinione pubblica. 

Non perché non si debba criticare, anzi. Ma solo perché questi dubbi sono agitati – per chissà quale scopo- da sopra (anzi, da sotto) un piedistallo di una errata comprensione o errata rappresentazione (e non sapremo dire cosa è peggio) di una situazione tecnico-scientifica invece molto chiara.

Gabriele Costantino è direttore del Dipartimento di Food and Drugs presso l'Università di Parma e docente ordinario di chimica farmaceutica presso lo stesso ateneo

Vi spiego perché gli anticorpi monoclonali non sono (ancora) una “cura miracolosa” contro il coronavirus

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