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Venerdì, 29 Marzo 2024

Banche e la strada dell'inferno

Cosa hanno in comune il fallimento della Silicon Valley Bank e gli ultimi, ennesimi spasmi del Credit Suisse, già gloriosa ed assai svizzera istituzione bancaria alle prese da anni con una spirale di scandali, malfunzionamenti di governance e tentativi di ridimensionamento delle molte unità di business che un tempo generavano utili e ora assorbono capitale e reputazione, in una corsa al buco nero? In apparenza, nulla. Nella sostanza, la fragilità nervosa di investitori che si sono risvegliati all’ultima reazione pavloviana: nel dubbio, vendere le banche.

Mercoledì 15 marzo l’innesco sono state le dichiarazioni del vertice della Saudi National Bank, l’istituto saudita che solo pochi mesi addietro aveva sottoscritto uno dei quattro miliardi di aumento di capitale della banca svizzera, pari a poco meno del 10%, la soglia rilevante oltre la quale scatta obbligo di richiedere l’autorizzazione alla vigilanza elvetica. In apparenza una risposta neutra a una domanda maliziosa sulla disponibilità a sostenere ulteriormente la banca. Nei fatti, ha scatenato l’inferno sistemico sui mercati. Con ragione, vista la rilevanza di Credit Suisse.

Che tuttavia ha coefficienti di liquidità non patologici, pur se in deterioramento. Ma sta perdendo pesantemente depositi, con una emorragia che ha accelerato nel quarto trimestre dello scorso anno. Il mondo ha preso contezza della rapidità con cui le banche possono perdere la linfa vitale dei conti correnti e trasformare un problema di liquidità in uno di solvibilità, al tempo di portafogli titoli deprezzati da reiterati aumenti dei tassi d’interesse. Credit Suisse andrà definitivamente sistemata; dopo l’intervento della banca centrale svizzera con una linea di credito subito tirata per 50 miliardi di franchi, ora il processo diverrà -si spera- più spedito e “istituzionalizzato”. Forse uno spezzatino globale, puntando a preservare la base commerciale svizzera della banca, che è la chiave di volta dell’intero edificio su cui poggia la stessa Confederazione elvetica, data la dimensione di Credit Suisse ma anche della dirimpettaia rossocrociata UBS.

Restano i dilemmi e i trade-off, sempre più acuti. Come conciliare la lotta a un’inflazione cocciuta e che come tale richiede una stretta monetaria persistente, con quelli della stabilità finanziaria? Negli Stati Uniti, dopo il colpo subito dal sistema delle banche regionali, il regolatore caduto dal letto nel cuore della notte promette una nuova stretta di vigilanza, salvo rimangiarsela al prossimo giro elettorale. Ciò causerà un fisiologico giro di vite alle condizioni di erogazione del credito, frenando l’economia.

Vedremo se la pezza reggerà, integrata dal “salvataggio di sistema” della First Republic Bank, che riceverà una trasfusione di 30 miliardi di depositi dalle maggiori banche statunitensi (in pratica, una “restituzione” di quelli che ha perso nei giorni scorsi durante la fase di panico). Non pare particolarmente rassicurante una dichiarazione della Segretaria al Tesoro, Janet Yellen, secondo la quale i depositi saranno integralmente garantiti “solo se ci sarà una determinazione di rischio sistemico”. Madame De La Palisse e il girotondo dell’argomentazione circolare.

In Europa, la Bce dovrà scegliere se proseguire con la stretta mettendosi le mani sulle orecchie e ripetendo ad alta voce “da noi non può succedere, siamo differenti e attenti”, oppure prendere tempo rallentando la stretta. Per ora si è scelta la strada del compromesso in seno al governing council. I 50 punti base di aumento sono stati portati a casa e celebrati come conferma che le banche dell’Eurozona sono così solide e vigilate che non ci si fa spaventare da turbolenze esterne. Per il futuro, vedremo i dati. Sarà tuttavia meglio evitare di illudersi che esistano comparti del settore finanziario isolati dal resto degli shock, perché sarebbe un’illusione da pagare a carissimo prezzo.

Su tutto, c’è l’ombra di un rischio non meno inquietante: dove deve fermarsi la garanzia pubblica sui depositi delle banche? Il caso SVB ha fatto un salto di livello, garantendo tutti i depositanti. Se la prassi dovesse generalizzarsi, a seguito di ricorrenti convulsioni dei mercati, il rischio è quello di arrivare a garantire ciò che non può essere garantito, e alimentare il caos monetario. Ma il problema delle garanzie e dei contagi rischia di essere presente anche sugli strumenti finanziari. Nello specifico, quelli che le banche dovrebbero sacrificare alle fasi di stress acuto: ad esempio i cosiddetti Co.Co bonds, o AT1 (Additional Tier 1), debito-capitale ultra subordinato che paga ricche cedole ma che può essere incenerito per riparare i quozienti di indebitamento. A questi si affiancano poi i bond senior ma sacrificabili, introdotti in Ue e Svizzera dopo la crisi finanziaria per proteggere i contribuenti dai dissesti bancari. Ricordate, il bail-in “caduto in desuetudine“?

Se i mercati dovessero rifiutare anche questa logica, vedendo rischi d’incendio anche nelle porte taglia-fuoco, per ciò stesso auto avverando la profezia, la botola che si aprirebbe sarebbe l’abisso per il sistema economico-finanziario globale. Niente subordinazione, vogliamo solo seniority. La versione finanziaria del detto todos caballeros. Altrimenti panichiamo. In tutto ciò, in Eurozona torna ad aprirsi il dibattito sull’unione bancaria, congelata dal veto dei virtuosi nordici contro l’eccesso di Btp in pancia alle banche italiane. Veto che, in una condizione del genere, non può che essere destinato alla conferma in termini ancora più netti. Con buona pace delle fantasie italiane sulle garanzie (sempre loro!) a cui avremmo diritto “perché noi e le nostre banche valiamo”.

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