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Venerdì, 29 Marzo 2024

La proposta

Massimiliano Tonelli

Direttore Editoriale CiboToday

L'assurdità del bollino per i ristoranti italiani all'estero

Tra i tanti e talvolta discutibili contenuti che si possono scorrere nel Decreto Made in Italy approvato dal Consiglio dei Ministri del Governo Meloni lo scorso 31 maggio, c'è un articolo che interessa particolarmente noi che ci occupiamo di ristoranti, di cuochi, di produttori e di materie prime. Si tratta dell'art. 29 del provvedimento e riguarda la così descritta "Certificazione di qualità della ristorazione italiana all'estero". Ovvero la possibilità per i ristoranti che la richiederanno (previo pagamento di una tariffa) di ottenere la certificazione, udite udite, di "ristorante italiano nel mondo" (così, testuale).

Un "bollino" come l'hanno chiamato i giornali; una vetrofania. Magari con una grafica affidata agli stessi creativi meritevoli che hanno disegnato il nuovo logo del Ministero dell'Istruzione e del Merito. Ma torniamo seri e procediamo ad analizzare il decreto: una certificazione rilasciata in base a cosa? Una certificazione - dice il dispositivo - rilasciata sulla base di un disciplinare (sic!) del Ministero delle Imprese di concerto col Ministero dell'Agricoltura e del Ministero degli Esteri al fine di identificare "i requisiti e le specifiche per il rilascio della certificazione stessa, con particolare riferimento all'utilizzo di ingredienti di qualità e di prodotti appartenenti alla tradizione enogastronomica italiana, DOP, IGP, DOCG e IGT".

La certificazione, conclude l'articolo nei successivi commi, durerà tre anni e sarà rinnovabile a patto che tre mesi prima il ristoratore chieda il rinnovo e paghi la tariffa. "Il decreto" dice a CiboToday il professore dell'Università di Scienze Gastronomiche Michele Antonio Fino "è un manifesto dell'adesione del Governo ad alcune delle cose che da anni una parte della produzione alimentare del Paese e il più importante sindacato agricolo vanno ripetendo: i prodotti italiani sono i più contraffatti al mondo, tutti vogliono mangiare italiano, il made in Italy è sotto attacco". Ma questa chiave di lettura è corretta? Risponde al vero? Qui di seguito ci sono 6 motivi per cui a nostro parere sarebbe meglio non se ne facesse nulla. 6 motivi che spiegano come mai un provvedimento del genere potrebbe portare perfino più danni che benefici.

L'ingenuità del concetto di ristorante italiano

Ma cosa è questa storia del "ristorante italiano"? La definizione è sempre più superata dai fatti, datata e anche piuttosto naif. Una ingenuità da chi guarda il mondo della ristorazione come fossero gli anni '90, mentre siamo nel pieno del 2023. La cucina è cambiata, i ristoratori non sono più quelli di un tempo e i cuochi sono un'altra cosa: viaggiano, studiano, navigano in rete, sfogliano Instagram e mescolano la loro cultura gastronomica con quella dei clienti, dei componenti della loro brigata, con quella dei loro fornitori. L'heritage gastronomico italiano (tra i più articolati e affascinanti) è uno dei più influenti del mondo, ma gli chef che si ispirano a questo filone mai si sognerebbero di definire semplicisticamente "italiano" il loro ristorante. Anche perché il concetto di "ristorante italiano", plurisfruttato a livello turistico nei decenni passati, è oggi assai screditato. È vero che sempre più ristoranti guardano all'Italia, ma non sono "ristoranti italiani", sono ristoranti internazionali che sono interessati alla tradizione, all'atmosfera o all'approccio gastronomico italiano. Magari non avendo nessunissimo italiano nel loro team. E poi ci sono ristoranti che prendono magari avvio da schemi, tecniche e ingredienti italiani e poi li fondono con la cucina orientale, con quella nordica, con quella sudamericana o con quella francese. In un meticciato gastronomico che forse non piacerà ai sovranisti, ma che è il racconto imprescindibile, oggi, della migliore scena gastronomica mondiale. I sedicenti "ristoranti italiani" esistono ancora, certo, ma quasi mai meritano di essere premiati e certificati.

Materia prima e ricetta

C'è una cosa su cui questo Decreto dimostra di non essere lucido: un conto sono le materie prime, un altro conto sono le ricette. Puoi fare perfetti piatti "italiani" con materie prime non provenienti dall'Italia e puoi invece realizzare piatti internazionali, completamente scollegati dalla nostra tradizione, anche adoperando prodotti a impeccabile denominazione di origine italiana. Il decreto trascura totalmente la ricettazione, la trasformazione, l'assemblaggio degli ingredienti (e la capacità del cuoco) per puntare esclusivamente sulla materia prima, che però è solo una parte del tutto. "Con questo decreto potrà richiedere il bollino anche un ristorante giapponese con sede negli Stati Uniti a patto di usare per il suo sushi solo riso di Novara e tonno di Sicilia" scherza lo storico della gastronomia Luca Cesari. "E se qualcuno farà la carbonara con 80ml di panna per persona come faceva Gualtiero Marchesi sarà considerato un traditore o un filologo della tradizione meritevole della certificazione?" rincara Michele Antonio Fino.

Come si decide la qualità di un ristorante?

Il fatto è che per certificare la qualità di un ristorante (visto che di "qualità", in senso esplicito, parla questo articolo del Decreto) l'unica maniera è visitarlo avendo le competenze per analizzarlo. Assaggiare le ricette, capire come lavora lo chef, se è in armonia con la sua squadra e col personale di sala, se rispetta la materia prima che ha a disposizione. La pretesa di giudicare la qualità di un ristorante a distanza, semplicemente analizzando le fatture di acquisto di qualche materia prima è non solo utopistica, ma piuttosto fuorviante e pericolosa.

Doc, dop e igp

Un altro grande malinteso di questa proposta governativa - speriamo soggetta a profondissimi cambiamenti - è il ruolo che viene dato alle denominazioni d'origine. Le varie DOC, DOP, IGP, IGT e DOCG vengono considerate qui dei filtri sufficienti per considerare "di qualità" un ristorante che le usa. Nulla di più sbagliato. Queste denominazioni (vale anche per il cibo "biologico") intercettano, fotografano e individuano una fascia di produzione che è intermedia, non eccellente: ci evitano probabilmente di finire vittime della parte bassa della piramide produttiva in termini di qualità, ma raramente hanno a che vedere con la parte alta. Non di rado nelle merceologie protagoniste del nostro export (dal formaggio al vino passando per i salumi) le aziende e gli artigiani davvero eccellenti se ne stanno ben fuori dai rispettivi consorzi e dalle rispettive denominazioni, considerate più delle gabbie burocratiche che delle opportunità. Ritenute sovente incapaci di essere inclusive verso una produzione di maggiore ricerca. Insomma il bollino dei "ristoranti italiani del mondo" finirà per essere un bollino che ci segnala i ristoranti dove non andare se siamo alla ricerca di qualcosa di realmente speciale; un bollino che ci segnalerà i ristoranti di normale cucina italiana. Normale.

Tre anni sono troppi

Tre anni sono un'eternità per molte industry. Per quella della ristorazione, non ne parliamo proprio. I ristoranti cambiano cuoco, cambiano gestione, cambiano stile. Cambiano i gusti e cambiano i clienti. Cambiano i quartieri dove stanno. Figurarsi quanto ci mettono a cambiare fornitori. I fortunati "ristoranti italiani nel mondo" potranno invece ottenere una certificazione (semplicemente dimostrando di acquistare determinati prodotti provenienti dall'Italia) e poi la potranno mantenerla per un tempo così lungo pur non dimostrando più nulla. Delle due l'una: o si accetta che molti ristoranti se ne approfitteranno, o si mette in piedi un costoso e farraginoso sistema di controlli. Ci sarebbe in realtà una terza sana ipotesi: evitare di emettere qualsivoglia bollino.

I disagi ai piccoli produttori

Nutriamo più di qualche dubbio, ma ammettiamo che dopo qualche anno questa specie di guida ai ristoranti ministeriale fatta da Roma in smartworking abbia successo. Ammettiamo che i ristoratori considerino importante esserci e vogliano a tutti i costi ottenere il bollino. Cosa bisogna fare per ottenerlo? Lo abbiamo detto: bisogna acquistare prodotti a denominazione di origine. Non importa fare ricette davvero italiane, non importa che lo chef si sia formato in Italia, non importa nulla: importa solo comprare i prodotti dei Consorzi che il Governo vuole sostenere. Bene. Le maggiori richieste di questi prodotti però potranno arrivare da due fronti: da un fronte diciamo basso, quello dei ristoratori che prima acquistavano prodotti "italian sounding" (non necessariamente di peggiore qualità, attenzione) che potrebbero passare a prodotti Made in Italy; ma anche da un fronte alto, quello dei ristoratori che compravano solo prodotti italiani da piccoli e piccolissimi artigiani, non censiti nelle nostre DOP, e che pur di ottenere il bollino abbasseranno la qualità dei loro fornitori puntando su materie prime più standard ma certificate. Ci sono tanti ristoranti italiani a Londra, a Parigi, a New York che puntano su micro produttori e sostengono il loro export, il decreto rischia seriamente di metterli in difficoltà portando ulteriore clientela sui già ricchissimi consorzi agroalimentari. "In realtà" conferma Luca Cesari a CiboToday "non si tratta di altro che di un'istanza commerciale, volta a far vendere ed esportare di più alla grande industria agroalimentare italiana". Che per un Governo è anche cosa legittima, ma perché allora scomodare il concetto di "qualità"? 

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