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Giovedì, 25 Aprile 2024

Antonio Piccirilli

Giornalista

Con Elly Schlein ora la sinistra non ha più scuse

Di Elly Schlein si può pensare tutto, tranne che non abbia una proposta chiara: abbandonare ogni tentazione centrista, chiudere l'agenda Draghi in un cassetto e riconquistare la fiducia di quei militanti delusi da decenni di politiche giudicate "neoliberiste" e per questo migrati via via verso altri lidi. Dal punto di vista del consenso elettorale viaggiamo in territori inesplorati perché mai prima d'ora il Pd aveva avuto un segretario latore di una "narrazione" (passateci il termine) capace di riaccendere l'entusiasmo degli elettori di sinistra meno inclini al compromesso, non solo sul tema dei diritti individuali, ma soprattutto sulle questioni economiche e sociali. D'altra parte la vittoria di Schlein alle primarie ripropone ed estremizza l'annoso problema della "coperta corta". Rinunciando a ogni velleità di "tenere tutto insieme" e rappresentare anche gli elettori più moderati (ammesso che esistano ancora), i dem non rischiano di condannarsi da soli a un ulteriore declino e all'irrilevanza?

Fabio Salamida ha scritto che quella della sinistra minoritaria nel Paese è solo una "mezza verità", un "racconto parziale" smentito proprio dalla recente vittoria di Fratelli d'Italia alle politiche, un partito "storicamente assai più minoritario" che invece oggi, dall'alto del suo 26%, è celebrato "come se rappresentasse una maggioranza schiacciante". La tesi è che in Italia nessun partito è maggioritario, ma tutte le forze politiche "possono ambire al Governo raccogliendo poco più di un quarto dei consensi, a patto che offrano al loro potenziale elettorato un messaggio chiaro e credibile". 

Di sicuro lo spauracchio di una sinistra dura e pura ma minoritaria nel Paese non è nuovo, anzi è vecchio almeno quanto la Repubblica, ben sintetizzato da quella memorabile frase di Pietro Nenni all'indomani delle politiche del 1948: "Piazze piene, urne vuote".

A ben vedere non si tratta di una convinzione così strampalata. Dal dopoguerra in poi la sinistra ha vinto le elezioni solo due volte, entrambe con Romano Prodi come candidato premier e sempre alleandosi con il centro. Vittorie ottenute con alleanze talvolta improbabili, ma pur sempre vittorie. Che però, così come le sconfitte, sono state sempre accompagnate da un reboante rumore di fondo. Ai militanti la svolta moderata impressa dai vertici dei vari partiti che hanno raccolto l'eredità del Pci non è mai andata giù, così come non è stata digerita la fusione a freddo tra cattolici e post-comunisti che ha portato alla nascita del Partito democratico. E poi, con il discorso di Veltroni al Lingotto, alla stagione tanto vituperata del "ma anche" e della "vocazione maggioritaria". E così, a ogni sconfitta elettorale, la soluzione vagheggiata dalla base è stata quella di un ripiegamento a sinistra. 

Messa in soffitta anche la parentesi renziana, la più dolorosa per una parte del popolo progressista, i dem hanno provato a riportare all'ovile i militanti smarriti eleggendo prima Zingaretti e poi Letta. La missione però è miseramente fallita. Nei fatti il Pd è sempre rimasto a metà del guado: si è proposto come il "partito della responsabilità", ma allo stesso tempo ha continuato ad ammiccare al popolo grillino alienandosi così anche le simpatie dei moderati. 

La verità è che i vertici non hanno mai saputo, o voluto, prendere una direzione chiara e netta. Se non quella, beninteso, che porta al governo senza vincere le elezioni. Il che non vuol dire che gli attivisti più schierati a sinistra avessero ragione. Almeno se guardiamo ai dati delle urne. Non si può ignorare il fatto che il Pd abbia ottenuto i suoi migliori risultati quando ha provato a sfondare al centro, prima con Veltroni (33% alle politiche del 2008) e poi con Renzi (40,8% alle europee del 2016).  

L'Italia del 2023 però non è quella dei tempi di Nenni e non è neppure la stessa che solo pochi anni fa ha incoronato Renzi premiando la sua proposta liberale. In un quadro politico sempre più polarizzato i partiti moderati faticano ad attrarre consensi, mentre quelli più radicali diventano i nuovi perni del sistema.

La percentuale sempre più alta di elettori che decidono di astenersi finisce poi per rendere sempre più decisive le "minoranze rumorose" a scapito di quella "maggioranza silenziosa" che nella storia repubblicana si è sempre beffata del popolo delle piazze. Proprio ciò che è successo alle primarie è emblematico. I 587mila voti con cui Schlein è stata eletta segretaria qualche anno fa non sarebbero bastati a spuntarla contro candidati più moderati come Renzi o Zingaretti. Guardando ai numeri assoluti poi ci si accorge che nel 2013 un outsider come Pippo Civati raccolse 399mila voti, arrivando solo terzo dietro allo stesso Renzi (1,8 milioni) e a un altro candidato non certo centrista come Cuperlo (510mila). Gli elettori più radicali sono sempre gli stessi, anzi in qualche caso aumentano. A mancare all'appello è il voto di tutti gli altri. 

Schlein ha davanti a sé molte sfide: dovrà ricostruire l'immagine di un partito che oggi appare sfibrato, lacerato dalle correnti e diventato il riferimento delle sole élite urbane. Non ha certo la strada spianata, ma in un contesto politico così fluido e monopolizzato dalle forze politiche più identitarie sarebbe miope darla per spacciata. Il popolo di sinistra le ha dato un mandato pieno per cambiare rotta e presentare una piattaforma politica chiara, abbandonando le ambiguità del passato. Se non riuscirà a convincere gli elettori questa volta nessuno potrà prendersela con l'ala riformista, i renziani o il destino cinico e baro. 

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