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Giovedì, 25 Aprile 2024

Giorgio Beretta

Opinionista

Femminicidi con armi legali: quando la politica è complice

Quattro femminicidi nel nuovo anno. Tre perpetrati da legali detentori di armi con le armi di cui erano regolarmente in possesso (qui il primo, qui il secondo e qui il terzo). Episodi gravissimi che hanno suscitato l’attenzione degli organi di informazione. Ma che nessuno dei principali esponenti politici ha ritenuto di commentare, nemmeno con un tweet. Eppure sono crimini commessi da persone che, secondo la legge, dovrebbero essere affidabili e non rappresentare una minaccia. E che, pertanto, chiamano in causa le norme che regolamentano il rilascio delle licenze e i controlli sui legali detentori di armi. Una coltre di complice silenzio della politica si stende su questi casi: un silenzio ancor più inaccettabile vista la loquacità con cui taluni politici commentano altri fatti di cronaca soprattutto se vedono coinvolte persone immigrate nel nostro paese. Ben venga pertanto la proposta di legge, che nei giorni scorsi ha ricevuto il via libera dalla Commissione Giustizia della Camera, per istituire una bicamerale d’inchiesta contro il femminicidio.

Femminicidi commessi da legali detentori di armi

I femminicidi commessi da legali detentori di armi non sono un evento raro o sporadico, tutt’altro. Come ha documentato nel 2021 il rapporto della precedente Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio redatto sulla base delle sentenze giudiziarie nel biennio 2017-18, in Italia il 16,1% dei femminicidi è stato commesso da persone in regolare possesso di una licenza per armi. Il dato è allarmante e il motivo è presto detto: i possessori legali di armi in Italia sono all’incirca 4 milioni, cioè l’8% della popolazione adulta. Ma questa limitata porzione di popolazione è all’origine del doppio della percentuale di femminicidi (il 16,1%) che si verificano nel nostro paese.

L’utilizzo dell’arma legalmente detenuta per commette femminicidi è purtroppo un fenomeno sottovalutato non solo dai rappresentanti politici ma anche dalle autorità di pubblica sicurezza e dai centri di ricerca. A parte il rapporto della Commissione, non esistono infatti altri dati ufficiali sui femminicidi compiuti in Italia con armi legali: né il Viminale né l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) hanno mai pubblicato una ricerca che riporti con precisione lo strumento utilizzato per commettere omicidi e femminicidi. Talvolta segnalano la percentuale di omicidi e femminicidi commessi con “armi da fuoco” senza però specificare se l’arma adoperata era legalmente o illegalmente detenuta.

Avere un’arma costituisce una tentazione ad usarla

Non è una questione di mero interesse statistico: è, invece, un elemento di fondamentale importanza per cercare di prevenire e scongiurare, per quanto possibile, i femminicidi. Se è vero, infatti, che qualsiasi strumento può essere utilizzato per uccidere, è però altrettanto vero che l’arma da fuoco permette al potenziale assassino di perpetrare il crimine con estrema facilità e senza dover esercitare nei confronti della vittima alcuna forza fisica: è sufficiente premere il grilletto. Non è un caso, perciò, che nei casi di femminicidio commessi da legali detentori di armi lo strumento utilizzato sia stato nella quasi totalità proprio l’arma da fuoco in loro possesso. 

Nelle situazioni di conflitti di coppia il possesso, ancorché legale, di un’arma costituisce una tentazione ad usarla. La separazione, il divorzio ma anche la semplice manifestazione da parte della donna della decisione di interrompere una relazione affettiva sono una fase particolarmente critica nei rapporti tra due persone. Sono situazioni che spesso generano negli uomini crisi di identità, frustrazioni e rancori che – come avvertono gli esperti – possono facilmente sfociare in episodi di violenza nei confronti della donna. In questi casi, in mancanza di una segnalazione o di una denuncia, le forze di pubblica sicurezza raramente possono procedere al ritiro cautelativo delle armi. Ma – ed è qui il punto – il possesso di un’arma non è un fattore secondario o marginale: un’arma nelle mani di un uomo in crisi, rancoroso e portato alla violenza rappresenta un elemento psicologico di particolare rilevanza nell’ideazione e nella progettazione di un’azione delittuosa nei confronti della moglie, della compagna o della partner. 

Servono nuove norme: controlli più adeguati e più frequenti

Chi uccide non è l’arma, ma la persona. Ma, proprio per questo, è ormai urgente rivedere le norme che permettono l’accesso legale alle armi e introdurre controlli più adeguati e frequenti sui legali detentori di armi. Sarebbe necessario – come richiede la legge – verificarne lo stato di salute mentale, la stabilità psicologica e l’insorgere di crisi della personalità potenzialmente letali. Oggi, invece, tutto si basa su una autocertificazione (il certificato anamnestico) controfirmato dal medico di famiglia e una visita presso l’ASL simile a quella per ottenere la patente di guida: raramente i medici di base e delle ASL richiedono visite specialistiche sullo stato di salute mentale o esami clinico-tossicologici per accertare che chi richiede una licenza per armi non faccia uso di droghe, di sostanze psicotrope o di medicinali per curare una depressione o stati di collera. E il rinnovo del certificato medico è richiesto solo ogni cinque anni: un lasso di tempo in cui la vita di una persona può cambiare radicalmente.

Il femminicidio è un fenomeno che va contrastato con l’istruzione e l’educazione, sradicando la cultura patriarcale del dominio dell’uomo sulla donna. Ma richiede anche provvedimenti urgenti per limitare il possesso delle armi, norme più rigorose sul rilascio delle licenze e controlli più frequenti e accurati sui legali detentori di armi. Non è più accettabile che l’arma detenuta per lavoro, per “uso sportivo”, per la caccia o col pretesto della legittima difesa divenga lo strumento privilegiato per l’illegittima offesa: l’omicidio di una donna.

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