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Domenica, 4 Giugno 2023

Donatella Polito

Giornalista

Figli sui social a tutto spiano: fenomenologia dello "share-hidenting"

Bambini, bambini, bambini ovunque. E mamme, mamme, mamme e papà ovunque. Mai come in questo periodo i social sembrano un'immensa scuola dell'infanzia dove l'utente medio si ritrova quasi per caso, accerchiato da un giro-giro-tondo senza fine di mani e manine che si stringono felicissime. Impalato a guardare questo festival dell'orgoglio genitoriale, lo spettatore sta là, impotente davanti alla dittatura di un accidenti di algoritmo che ripropone sempre lo stesso spettacolo: tenta di scrollare velocissimamente le immagini sullo schermo, spera che la sua attenzione non venga intercettata, ma niente. "Venghino signori venghino": se lo show che "tira" è quello, c'è poco da fare, gli tocca. 

Spaccati di irresistibile puerilità sono ormai prassi nell'epoca della condivisione a tutto spiano. Neonati che vagiscono davanti a torte a tre piani insudiciati di panna, "mma-mmma" pronunciati per la prima volta, la scuola, lo sport e ogni tappa della crescita di ignari infanti riempiono le pagine di Facebook e Instagram da quando la vita virtuale ha iniziato a pre(te)ndere un posto nei tinelli casalinghi. Nessuno più conserva un album di famiglia che raccolga la cronistoria bidimensionale da zero a 18 anni, perché ogni istante è degno di un flash che lo rappresenti oltre le pareti, nel qui e ora, pena un oblio a cui nessuno ha intenzione di arrendersi.

Negli ultimi tempi, però, dalla pratica ormai consolidata di rendere i bambini i soggetti preferiti di post social si diffonde un ulteriore fenomeno che potrebbe essere definito "share-hidenting" per l'elemento peculiare che lo distingue dallo "sharenting": un'ombra, un'emoji, un taglio netto sui piccoli volti che non li rende riconoscibili. Alla fusione dei termini share (condividere) e parenting (genitorialità), si aggiunge, dunque, la giusta premura del nascondere (hide), un accorgimento utile e necessario per coloro che solo ogni tanto intendano fermare sui propri account un momento della propria vita famigliare con i bimbi e mostrarlo agli altri. Tuttavia, è quando la frequenza si fa costante, frequente e ripetitiva che sorge il pensiero di come, indirettamente, quella stessa foto possa essere condivisa più per mettere in luce gli autori della pubblicazione che i loro piccoli soggetti. Pare, infatti, che il dettaglio del pixel, se da un lato opportunamente tutela la privacy del minore, dall'altro agevoli l'autoreferenzialità parentale che espone i figli per raccontare se stessa. Sembrano loro, insomma, i veri protagonisti della condivisione, i genitori, tacitamente desiderosi di essere visti (loro sì), identificati e magari pure applauditi per la lodevole accortezza.  

Mamme, papà e #minime

In generale, sui social si sta per parlare di sé agli altri. Uno stato d'animo, un momento importante, una semplice riflessione sono contenuti che alimentano la realtà virtuale dove pure la sfera più intima è diventata ormai materiale di reciproca compartecipazione. Ma che succede quando il racconto della propria vita include anche quella frequente di un bambino, di un figlio, nello specifico? 

La docente di psicologia e direttrice del Children and Parents Lab dell'Università dell'Ohio, Sarah Schoppe-Sullivan, se l'è chiesto nel 2017. Allora la professoressa aveva preso in esame solo le neomamme e il loro approccio con Facebook: il fine era comprendere se e quanto utilizzassero il social network per cercare conferme su se stesse e sulla loro capacità di essere brave mamme. I risultati avevano riscontrato che le madri più attive sui social erano quelle maggiormente interessate alla convalida esterna, più predisposte a riconoscersi nei modelli richiesti dalla società, più identificate nel loro ruolo materno al punto di mostrare il loro bambino anche nella foto del profilo di Facebook.  

Dallo studio sono passati sei anni e nel tempo il mezzo social si è evoluto moltissimo con l'incremento delle piattaforme che, da Instagram a TikTok, hanno allargato sia il bacino di utenza che le motivazioni sottese al loro utilizzo. Oggi la consapevolezza dei rischi a cui si espongono i più piccoli se non tutelati nell'ambiente digitale pare allargarsi piano piano anche grazie all'informazione che sensibilizza sul tema, ma la predisposizione delle mamme come dei papà a piazzare i propri figli davanti a uno smartphone e a pubblicare i loro scatti, sebbene pixelati, resiste comunque. E ci si chiede perché. Perché neonati e bambini continuano a essere soggetti gettonatisismi di una realtà a cui loro non hanno accesso ("Per creare un account su Instagram bisogna avere almeno 13 anni. In alcune giurisdizioni, il limite di età può essere superiore", si legge nei "Suggerimenti ai genitori" di Facebook). Perché l'attitudine a raccontarsi come individui non riesce a prescindere dal ruolo di madri e padri di persone che magari un giorno potrebbero decidere di non far parte di quello spazio indefinito, nemmeno con un bollino sulla faccia.

L'idea che l'inclinazione descriva più il co-protagonismo egoriferito degli adulti che l'esaltazione dei pargoli inconsapevoli resiste davanti alla moltitudine di scatti provenienti da ogni latitudine. Oltre 9 milioni sono le foto corredate dall'hashtag #minime che su Instagram marchiano i figli come piccoli se stessi in cui riflettersi, ammirarsi, compiacersi di averli messi al mondo. Un mondo che li guarda, li spia e di loro sa già tutto, belli di mamma e papà.

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