L'assurda proposta di sciogliere le Frecce Tricolori
La tragedia all'aeroporto di Torino Caselle, in cui è morta la piccola Laura Origliasso, 5 anni, ha riacceso il solito riflesso condizionato: sciogliamo le Frecce Tricolori, chiede da giorni un passaparola diventato virale sui social. Succede sempre quando un reparto militare è coinvolto in un incidente. E la logica che regge questo ragionamento, secondo la mia opinione, è piuttosto ridicola. Un Frecciarossa deraglia a Livraga (2020)? Eliminiamo forse i Frecciarossa? Una nave da crociera si rovescia all'isola del Giglio (2012)? Fermiamo tutte le navi? Perdiamo così di vista la questione più utile da affrontare: si possono invece eliminare le cause che hanno provocato l'incidente e le circostanze che hanno reso tragiche le sue conseguenze?
La piantata del motore dell'aereo della pattuglia acrobatica nazionale sarebbe dovuta all'impatto con uno stormo di uccelli (bird-strike) o a un guasto improvviso. Ma sembra più probabile la prima ipotesi. Il pilota ai comandi, il maggiore Oscar Del Dò, 35 anni, ha fatto tutto quello che poteva fare. Lo dimostra il video girato da un testimone: è uscito dalla formazione, si è abbassato sulla pista per evitare che l'aereo finisse lontano dall'aeroporto e si è lanciato con il seggiolino eiettabile, quando ha visto che il terreno davanti a lui era sgombro di case (foto sotto). Il militare non poteva notare le auto in arrivo e, fin qui, l'unica conseguenza sarebbe stata la distruzione del suo Aermacchi Mb339.
Se si è trattato di un bird-strike, come i piloti chiamano gli scontri con uno o più uccelli, possiamo eliminare questo rischio dagli aeroporti? Apparentemente no, da quello che abbiamo raccontato in un precedente articolo. Lo si può ridurre, mitigare, con una serie di operazioni che vanno dalla segnalazione alla torre di controllo fino all'intervento in pista di una unità specializzata che, con strumenti non letali, deve allontanare gli animali. Purtroppo, finora, non è stato possibile proteggere le turbine dei jet con reti o griglie, come immaginato da alcuni lettori, poiché disturberebbero l'imponente flusso d'aria che permette ai motori a reazione di spingere l'aereo ad alta velocità e farlo volare. Questo per quanto riguarda le cause dell'incidente, che la Procura di Ivrea sta verificando.
La strada davanti alla pista
Poi però qualcuno, tanti anni fa, ha pensato che una strada provinciale potesse attraversare l'area di fuga davanti alla pista e alla recinzione dell'aeroporto: è proprio questa scelta ad aver coinvolto l'auto su cui viaggiavano con i genitori la piccola Laura e il fratello Andrea, 12 anni, in un incidente che altrimenti avrebbe provocato soltanto danni materiali. Ma se le condizioni meteo avessero richiesto il decollo nella direzione opposta (gli aerei partono e atterrano sempre controvento), le conseguenze sarebbero state forse peggiori: l'Aermacchi infatti sarebbe potuto cadere su una superstrada o addirittura sul paese di Caselle Torinese, le cui case lambiscono le antenne della pista. Quindi, dobbiamo chiederci, è stata una scelta saggia costruire strade, abitazioni e fabbriche a ridosso degli aeroporti? A voi la risposta.
Il primo giugno 2003, dopo l'impatto con uno stormo di uccelli, un lussuoso aerotaxi Learjet con soltanto i due piloti a bordo si schiantò sul capannone di un'azienda, costruito vicino all'aeroporto di Milano Linate. Il comandante stava cercando di atterrare, dopo aver dichiarato l'emergenza, e meno male che non è cascato sul pubblico del Giro d'Italia che si stava correndo sulle strade sotto di lui. Non ci furono altre vittime oltre ai due membri dell'equipaggio, perché era domenica e la fabbrica era chiusa.
Eppure in questi ultimi anni abbiamo visto i terreni agricoli, che costituivano le potenziali aree di sicurezza intorno alla pista di Linate (la foto del 2007 qui sopra), trasformarsi in giganteschi capannoni della logistica in cui lavorano centinaia di persone (la foto di oggi qui sotto). Abbiamo insomma imprigionato gli aeroporti dentro una gabbia di interessi che non hanno nulla a che vedere con la prudenza. La mattina dell'8 ottobre 2001 il tragico incidente dopo uno scontro tra aerei, sempre a Linate (118 morti), avrebbe potuto avere conseguenze ben peggiori se l'Md87 della Scandinavian Airlines ormai fuori controllo non si fosse fermato contro il deposito bagagli: lì davanti c'erano infatti anche il parcheggio dei taxi e viale Forlanini, a quell'ora pieno di traffico.
Qualcuno (comuni, regioni, autorità statali), trasformando le aeree agricole intorno alle piste, ha evidentemente deciso che valesse la pena correre il rischio. Altrimenti un aeroporto come quello di Napoli Capodichino, ormai dentro la città, andrebbe fermato oggi stesso. Così come Roma Ciampino, per il quale l'Ente nazionale aviazione civile nel suo ultimo piano propone la chiusura e la sostituzione con un nuovo scalo da costruire.
La cultura del rischio zero
La regola, infatti, è che gli aerei non devono cadere. Così, di solito, i pericoli vengono affrontati a monte: addestramento, manutenzioni, controlli. L'incidente però è sempre dietro l'angolo. Cosa dobbiamo fare allora? Una spiegazione ce la suggerisce il commento di un nostro lettore, che si firma Sergio: “La cultura del rischio zero ha annichilito il rischio calcolato. L'unico risultato di questa filosofia è la costante ricerca del colpevole... La ricerca del capro espiatorio ha il taumaturgico scopo di tranquillizzare il nostro vivere eliminando il non prevedibile dalle nostre esistenze. Una vera involuzione culturale”.
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È però necessario, di fronte a una tragedia come la morte della piccola Laura e il ferimento della sua famiglia, indagare sulle cause e su eventuali negligenze umane. Per questo esiste la magistratura. Ma ecco che una parte dell'opinione pubblica ha già individuato nelle Frecce Tricolori la responsabilità del dramma di Torino. E poi costano troppo, inquinano, sono inutili. In realtà si tratta di un normale reparto di volo della nostra Difesa. Un reparto militare, il 313° Gruppo addestramento acrobatico, che ha il compito di rappresentare l'Italia, la sua industria e la nostra bandiera. Magari, dopo aver soppresso le Frecce Tricolori, potremmo anche far chiudere la Ferrari e trasformarla in una fabbrica di Trabant, le auto di simil cartone uguali per tutti, che giravano a Berlino Est sotto la dittatura comunista. Anche le Ferrari sono costose, inquinano e, secondo un certo punto di vista, sono perfettamente inutili.