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Mercoledì, 4 Ottobre 2023

Genitori e figli

Anna Dazzan

Giornalista

Nella società del consumo, la sfida è insegnare ai figli la non omologazione

Quando ero una ragazzina nutrivo il desiderio di non sentirmi diversa dalle altre, guardavo come si comportavano e vestivano le mie compagne di classe per poter fare come loro, tutte con lo stesso astuccio, lo zaino uguale, le scarpe dello stesso modello. Quando chiesi a mio padre di avere un “Invicta”, lui mi portò nel grande negozio all’ingrosso dove comperava tutto, dagli spaghetti ai vestiti. Ne uscimmo con uno zaino in saldo arancione e viola. Se penso a due colori che non stanno affatto bene assieme sono questi. E al tempo me ne rendevo perfettamente conto, guardando con quanto orgoglio i ragazzi e le ragazze della mia scuola indossavano i loro. Rosso e blu il più gettonato e i monocolore con cui non sbagliavi mai. E poi io. Praticamente un segnale stradale in movimento.

Col tempo la sensazione di inadeguatezza è passata, quello zaino inizialmente così sbagliato non ce l’aveva nessuno. Solo io. Ma ci ho messo anni a capire che quello zaino era il mio e solo mio ed io con lui ero me stessa e adesso che le parti si sono invertite, che ho io due figlie a fare la parte di quelle che non vogliono sentirsi diverse, capisco che quella dell’omologazione è una sfida della genitorialità a cui non avevo pensato.

Ieri sera ero in giro per la mia città in festa, con caldo di questi giorni anche Udine sembra allegra. Le ragazze erano tutte top e pantaloni larghi e se fossero passate le mie, avrei fatto fatica a riconoscerle. Ho pensato a un’equazione piuttosto banale, consumismo e uniformazione. Avere, avere, avere, comprare, comprare, comprare. E poco importa se il potere d’acquisto le persone più giovani non lo prendono nemmeno in considerazione, men che meno quando è talmente basso che l’essenziale dovrebbe essere l’unica spesa concessa. Questi negozi di abbigliamento dove c’è tutto tranne che qualità sono proliferati così velocemente che ci sembra ormai normale non vedere più quella ferramenta storica o quell’alimentari di famiglia che facevano parte della storia delle nostre città. Che discorso da vecchia, me lo dico da sola. E infatti alle mie figlie questi discorsi non glieli faccio, almeno non più. A me davano fastidio e so che sarebbe controproducente riproporli a loro. E come faceva mio padre, poche parole e solo fatti, ci provo con l’esempio.

Oggi è esattamente un anno che non compro vestiti. Mi rendo conto che non è un traguardo da celebrare come un master di secondo livello e che c’è gente che abiti di prima mano non li ha nemmeno mai visti, ma in una società votata all’acquisto tentatorio, rapido e inconsapevole e dove vige incontrastato il modello della replicabilità, credetemi, l’ho considerato quasi un atto di resistenza. Ogni tanto mi sono concessa lo sfizio di uno scambio di vestiti, cedendo ciò che non faceva più il caso mio e prendendo abiti che ad altre donne non piacevano o non andavano più. Ho visto che funzionava e ho cominciato a farlo anche con oggetti di arredamento, piante e altro. Le mie figlie mi prendevano un po’ in giro, all’inizio, poi ho visto che la più grande andava a sgarfare* nel mio armadio a caccia di qualcosa di interessante e la piccola faceva lo stesso con l’armadio della sorella.

In un mondo in cui la logica inerziale della ripetizione è la risorsa principale di cui si alimentano le società di consumo, l’ho trovato un piccolo passo di indipendenza. Loro cresceranno, smetteranno di cercare di capire chi sono attraverso il parco di vite possibili offerto loro dai social e inizieranno a farlo guardandosi dentro. O almeno è ciò che auguro loro. E se in fondo al garage di casa dei miei spunterà fuori un vecchio zaino arancione e viola, magari verrà loro voglia di sfoggiarlo con orgoglio. O, ancor meglio, con totale indifferenza verso la sua estetica.

*"sgarfare" nella lingua friulana significa "rovistare"

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