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Venerdì, 19 Aprile 2024

Nicolò Giraldi

Responsabile Trieste Prima

Le foibe e la necessità di fare i conti con le cose scomode

Da un lato l’istituzionalizzazione del dramma dell’esodo istriano e delle foibe, dall’altro la sensazione che questa storia possa scivolare nell’oblio, in virtù dei sempre meno testimoni diretti e, paradossalmente, dell'ampliamento dei suoi confini naturali. Il 10 febbraio del 1947 a Parigi veniva firmato il Trattato di pace che imponeva all’Italia - uscita dalle macerie di una guerra voluta dalla Germania nazista ed abbracciata dal regime fascista – l’abbandono dei territori dell’Istria, Fiume e della città di Zara. La Jugoslavia di Tito ne entrava in possesso. 

"Un popolo senza radici non ha futuro"

A dire il vero la questione del confine orientale andrà avanti per molti anni. Ci vorrà il Memorandum di Londra del 1954 e il Trattato di Osimo della metà degli anni Settanta per sancire definitivamente la risoluzione delle controversie legate alla frontiera adriatica. Oggi tutta l’Italia celebra il 10 febbraio come il giorno in cui ricordare. C’è voluta una legge approvata dal parlamento per far sì che tutti gli italiani riconoscano questa storia come parte del patrimonio nazionale. Bianchi, rossi, persino i verdi – i neri, oggi al governo, invece le han sempre ricordate, le foibe –, tutti dalla stessa parte, in nome di una riconciliazione finalmente possibile. Eppure, se è scontato che un popolo senza radici non ha futuro, è altrettanto vero che una certa ossessione per il passato può annebbiare l’orizzonte.

"I ciacola solo che de foibe"

Mio nonno Bortolo, classe 1924 ed esule istriano da Pirano, negli ultimi anni della sua vita si lamentava di come il Giorno del ricordo avesse totalmente fagocitato l’esodo, facendolo precipitare in un vortice sempre più profondo dove solo le foibe sembrano avere importanza. “I ciacola (chiacchierano) solo che de foibe, de l'esodo gnanche una parola” ripeteva, con mia nonna Antonia a bacchettarlo e a ricordargli di non agitarsi. Ma quell’agitazione si è impadronita della mia anima, oggi. Il dramma di aver perduto quasi totalmente la millenaria latinità dell’Adriatico orientale (se non ci fossero le Comunità degli Italiani in Slovenia e Croazia quell’italianità sarebbe ben che evaporata) è reale, eppure non sembra riuscire ad entrare con forza nel dibattito istituzionale.   

Lo stato del ricordo

Nell'ottobre del 1943 una squadra guidata dal maresciallo Harzarich recuperò nella fossa dei Colombi, a 146 metri di profondità, i corpi di 84 vittime delle #Foibe

Qual è lo stato del ricordo a vent’anni dalla legge? Si è fatto tanto, tantissimo dal punto di vista della memoria, ma non possiamo andare avanti all’infinito con il puntuale e necessario Magazzino 18 di Cristicchi, giusto? Dove va a finire questa storia? Bastano le cerimonie solenni al Quirinale? Sono sufficienti le medaglie ai parenti degli infoibati? Un film ben finanziato dalle associazioni degli esuli e sbattuto in prima serata basta per ricordare? No, quale ovvietà. Serve dare sostegno a chi porterà avanti questa memoria lacerata. Servirebbe comprensione, certo, ma anche tanto, tantissimo realismo. Per liberare gli incubi dai fantasmi del passato serve fare di più. 

L'impegno non sia click baiting in salsa irredentista

La legge del Ricordo lo dice espressamente e cita le “più complesse vicende del confine orientale”. Come a rammentare a tutta la Nazione che quando si ha a che fare con questa frontiera, ciò che l’italiano medio si aspetta è distante anni luce dalla realtà. Servono risorse, ma anche buona volontà. Il digitale può venire in aiuto, ma non per un click baiting in salsa popolar-irredentista, dove gli utenti più attivi frequentano con evidente successo l’università della strada, e dove consiglieri comunali condividono grafiche di una Dalmazia tricolore al grido di "ritorneremo". Qualche anno fa era stato l'attuale ministro degli Esteri, alla foiba di Basovizza, sul Carso triestino, a chiudere il suo intervento da presidente del parlamento europeo con "viva l'Istria e la Dalmazia italiane", no? 

Il trauma, la psichiatria, l'omosessualità

Al di là di ciò che pensa di fare la politica, c'è una prima linea che continua a lavorare. Elio Varutti, instancabile collezionista di storie legate all’esodo in Friuli, tempo fa ad un convegno a Trieste affermò che la nuova frontiera da esplorare, dal punto di vista della ricerca, dovrebbe essere quella che interroga lo sradicamento degli esuli istriani, fiumani e dalmati, così da far luce sugli strascichi psichiatrici subiti da un’intera generazione. L’ha fatto Gloria Nemec, con il suo “Dopo venuti a Trieste”, una strepitosa raccolta di testimonianze orali degli esuli internati nel manicomio di San Giovanni. Scavare a fondo in quella memoria significa soprattutto non aver paura di ammettere le proprie debolezze. Foibe ed esodo sì, ma anche una proiezione verso i temi che incutono timore, verso i tabù. Cosa sappiamo dell'omosessualità tra gli esuli? Qualcuno ha fatto ricerca sul tema? 

Di lavoro da fare ce n'è

Oggi tutta l’Italia commemora l’esodo e le foibe. Per far sì che questo ricordo non diventi vuota autocelebrazione e non si perda nell’oblio istituzionale, questa storia deve iniziare a curare le ferite della cosiddetta seconda generazione. La prima è quasi del tutto sparita. Chi era bambino all’epoca della fuga, oggi vive una condizione di evidente spaesamento. Non risiede dove è nato, si è omologato ad un mondo che imponeva accelerazioni liberali e cambiamenti sociali irreversibili, ma veste ancora la divisa del profugo, seppur è mediamente meglio disposto verso i vicini sloveni e croati di quanto non fossero i genitori. Spesso, al confronto con chi è profugo oggi, tende a marcare le differenze. “Noi ierimo diversi (eravamo diversi)” sostiene in dialetto. C'è qualcuno tra gli esuli che mette a disposizione la sua condizione per migliorare il mondo in cui tutti viviamo? Lo spero, ma non ne sono sicuro.  

Fare i conti, raccontarsi le cose scomode

Questo movimento deve iniziare a fare i conti con il trauma. Affrontarlo e combatterlo serve soprattutto alla comunità in cui siamo cresciuti e dove vorremo far crescere i nostri figli. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ripete spesso la parola “nazione”, con orgoglio forse anche per l'averla sdoganata rispetto ad un nazionalismo il cui rischio è sempre molto vicino. Una nazione ha bisogno anche di un insieme condiviso dove dirsi la verità, dove raccontarsi le cose scomode. Siamo italiani, nelle difficoltà troviamo sempre l'energia per uscirne. Ed allora mi viene da scriverlo: l’attimo in cui il Ricordo, senza scordarsi del lungo cammino fino a qui intrapreso, sceglierà le nuove strade da percorrere, ecco che saremo di fronte all’alba di un giorno nuovo. Fino ad allora, di lavoro da fare ce n’è.

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