rotate-mobile
Giovedì, 28 Marzo 2024

Da Renzi a Meloni, l'Italia a Bruxelles con il cappello in mano

Partono incendiari e fieri, ma quando arrivano a Bruxelles sono tutti col cappello in mano. Si può parafrasare Rino Gaetano per descrivere (magari eccedendo in sarcasmo) l'atteggiamento che i premier italiani hanno mostrato negli ultimi anni quando si sono trovati a trattare con l'Unione europea. È successo con la crisi dei migranti nel 2015, o ancora con la pandemia di Covid-19. E sta succedendo adesso con il governo Meloni, nel pieno della crisi energetica. Una strategia nazionale che l'Italia porta avanti a prescindere dal colore (o dai colori) della maggioranza al potere. Ma i cui risultati, al netto della propaganda e dei successi di breve termine, rischiano alla lunga di indebolire il Belpaese, al suo interno e in Europa. 

Si prenda la prima visita di Meloni alla 'tre chiese' dell'Ue (Parlamento, Commissione e Consiglio degli Stati membri): il dossier con cui è giunta a Bruxelles verte su tre punti centrali, ossia un nuovo fondo comune dell'Ue contro il caro bollette, la revisione del Pnrr e la questione migranti. Partiamo da quest'ultimo. Riavvolgendo il film dei summit europei dai tempi dell'ultimo esecutivo Berlusconi (per non andare troppo a ritroso), la questione migranti riemerge periodicamente. Un mistero, visto che almeno tre governi avevano annunciato di aver risolto il problema: era successo con i respingimenti e i porti chiusi di Maroni e Salvini, oppure con la 'vittoria' di Renzi sui ricollocamenti dopo la crisi del 2015 ("Ha vinto l'Europa della solidarietà", disse l'attuale leader di Italia viva). Peccato che appena tre anni dopo, la bagarre sui migranti tornò in prima pagina nel Belpaese: si concluse con una maratona a Bruxelles al termine della quale Conte assicurò di aver sancito con i colleghi Ue il principio che "chi arriva in Italia, arriva in Europa".

Il principio, a quanto pare, è rimasto sulla carta, dato che il governo Meloni si trova adesso a sventolare l'ascia di guerra per riaffermarlo. La leader di Fratelli d'Italia potrebbe forse seguire le orme di Renzi, che seppe utilizzare le rivendicazioni (sacrosante) sulla questione migranti per ottenere maggiori concessioni sul bilancio: le spese per l'accoglienza, oltre a quelle finanziate con fondi extra dall'Ue, furono escluse dal computo del deficit, così come accadde dopo per quelle per il terremoto. Qualcuno a Bruxelles sollevò qualche sospetto sulla quantità di spese registrate nella quota "accoglienza", ma i bilanci furono alla fine approvati. 

Renzi non fu certo il primo a chiedere flessibilità sui conti per aggirare i paletti del Patto di stabilità: lo fece Berlusconi, per esempio, il quale però al suo arco aveva qualche freccia in meno: non c'erano emergenze a cui appellarsi, salvo la crisi finanziaria globale del 2008. Il Cavaliere concentrò i suoi sforzi diplomatici per ottenere qualche margine di manovra in più sui bilanci, da un lato giurando di voler rispettare gli impegni presi nel quadro del Fiscal compact (ossia il mai raggiunto, anche dopo di lui, pareggio di bilancio), e dall'altro richiamando i falchi dell'austerity al rispetto del Belpaese, in quanto "contributore netto dell'Ue". Versiamo più soldi a Bruxelles di quelli che riceviamo, ha ripetuto per anni Berlusconi. Il suo mantra piacque anche ai successori, persino al professore Mario Monti. Lo ripetè Renzi, con alcuni esponenti del suo governo che cominciarono a mettere in discussione il Patto, e dopo di lui anche Conte. 

Fu proprio il futuro leader del Movimento 5 stelle l'ultimo a usare la carta del "contributore netto" durante i difficili negoziati sul Recovery fund: ottenne uno storico risultato, senza dubbio. Ma con il Pnrr (ossia i sussidi a fondo perduto provenienti dai contribuenti di Germania e Olanda e i prestiti dei bond europei) l'Italia è rimasta con un cappello in mano pieno di soldi, ma ha perso almeno per il prossimo lustro lo status di Paese che paga il conto anche per gli altri. Una carta in meno da giocare per Draghi, che ha potuto comunque contare sul suo prestigio per chiudere i negoziati su investimenti del Pnrr e relativi impegni sulle riforme senza troppi drammi sull'asse Roma-Bruxelles. Peccato che l'idillio a un certo punto ha dovuto confrontarsi con una nuova crisi, quella energetica.

E così, anche l'ex governatore della Bce ha dovuto riprendere in mano il cappello dell'obolo italico: tra inflazione e caro bollette, l'Italia sta raschiando il fondo del barile per sostenere famiglie e imprese. Certo, il Patto di stabilità è sospeso dalla pandemia, ma forzare troppo la mano sul deficit rischia di creare turbolenze non tanto (e non solo) a Bruxelles, ma piuttosto sui mercati finanziari, come ha dimostrato la fugace esperienza del governo di Liz Truss nel Regno Unito. Ecco perché sarebbe utile trovare risorse fresche: il Pnrr c'è, ma serve per gli investimenti e non per gli aiuti diretti. Da qui la richiesta di un nuovo fondo europeo sul modello del Sure, il fondo che ha anticipato il Recovery e che prevede prestiti agevolati concessi dall'Ue con i soldi raccolti con i suoi bond (a fronte delle garanzie dei governi).

La battaglia di Draghi è ora nelle mani di Meloni. Oltre alla famosa campanella, il passaggio di consegne ha contemplato anche il cappello. Non è certo colpa dell'ex premier, né di quella attuale. Meloni molto probabilmente giocherà la carta dei migranti per richiamare l'Ue alla solidarietà, non solo sull'accoglienza, ma anche e soprattutto sul Sure bis. La leader di FdI vorrebbe anche rivedere il Pnrr, cosa che Bruxelles potrebbe accettare, ma non se si rimettono ancora una volta in discussione le riforme sulle quali il Paese si è impegnato (tra l'altro con un governo di cui facevano parte due dei tre partiti dell'attuale maggioranza, ossia Lega e Forza Italia).

Dall'ultimo governo Berlusconi a oggi, la storia delle trattative dell'Italia a Bruxelles è piena zeppa di promesse mancate. È vero che dal 2008 ci sono state almeno quattro gravi crisi internazionali, compresa quella in corso. Ed è vero che il Patto di stabilità si è rivelato un fallimento per i Paesi del Sud. Ma le regole le abbiamo sottoscritte anche noi. Continuare a rivendicare come un diritto le deroghe agli impegni presi e non attuati, ci ha reso alla lunga meno credibili. E questo, mentre diventevamo più poveri. La vera sfida di Meloni dovrebbe essere quella di invertire il trend. Non c'è da vergognarsi ad avere il cappello in mano. Ma qualsiasi risorsa in più otterrà il nuovo governo, comporterà anche nuovi impegni. Sarebbe bene dunque dimostrarsi credibili, perché dal modo in cui spenderemo i soldi che contiene questo cappello e attueremo gli accordi, vecchi e nuovi, dipenderà il futuro dell'Italia e della sua economia. E questo a prescindere da migranti, falchi e frugali. 

Si parla di

Da Renzi a Meloni, l'Italia a Bruxelles con il cappello in mano

Today è in caricamento