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Giovedì, 28 Marzo 2024

L'editoriale

Eva Elisabetta Zuccari

Giornalista

Maurizio Costanzo: uno, nessuno e tutti noi. E la sua eredità per ciascuno

La peculiarità, o minimo comune denominatore, che accomuna gli innumerevoli - e affollatissimi - servizi dedicati a Maurizio Costanzo nei giorni successivi alla sua morte, è che a trovare spazio in quei filmati un po' a colori e un po' in bianco e nero sono, per l'appunto, prima le storie raccontate nei sessant'anni di carriera e, solo dopo, il suo volto. Prima le decine di talenti fiutati anzitempo dal giornalista e le corrispettive valli di lacrime (mai vista così tanta gente piangere in tv, anche insospettabile, da Claudio Lippi, che gli deve parte dei suoi anni d'oro professionali, a Piersilvio Berlusconi, che gli deve parte del palinsesto), e solo dopo il suo volto. Prima le esistenze straordinarie delle persone comuni che hanno affollato la Piazza Grande del "Maurizio Costanzo Show", palco di dibattito sociale e di costume, e poi - ma solo poi, appunto - la sua espressione d'ironia cinica e bonaria al tempo stesso. 

Assumendoci dunque il rischio di precipitare nel moralismo, nella banalità o nei toni che hanno a che fare più con una omelia piuttosto che con un editoriale, quello che vogliamo sottolineare a qualche giorno dalla scomparsa di Costanzo è l'assoluta distanza tra l'«esercito del selfie» che siamo diventati e quella che può invece candidarsi a essere un'eredità da accogliere: la lampante curiosità verso l'essere umano che è stata motore (e movente, in alcuni casi, ma questo lo chiariamo poi) del suo lavoro. E che è per l'appunto il contrario degli ormai leggendari selfie chiesti tragicamente ad una vedova nello spazio di una camera ardente. Sempre che vogliamo - e lo vogliamo - assecondare quella benedetta tradizione di trovare un insegnamento come (unica) consolazione possibile dopo l'altrui trapasso.

Da una parte insomma ci sono - anzi, ci siamo - quelli della foto con la vedova (accompagnati anche da quelli che, in quanto celebrità, il «selfie col morto del giorno» già ce l'avevano e l'hanno quindi solo dovuto condividere via social in una gara di mitomania a corpo ancora caldo), dall'altra Costanzo, il deus ex machina della vita altrui. Da una parte l'incontinenza d'esibizionismo di questi anni Venti (che poi "la gara «ecco la mia foto col defunto» è ancora valida se quest'ultimo è stato fotografato con tutta l'Italia negli ultimi 50 anni?" si è giustamente chiesto l'autore Fabio Vassallo), dall'altra l'incontinenza di empatia, fiuto, curiosità ed intuito che portò Costanzo a scovare, tra tanti professori d'arte che gremivano i corridoi delle università, proprio un personaggio Vittorio Sgarbi. Ed innumerevoli sono oggi i personaggi che, a dieci giorni dalla morte e per sempre, si ritroveranno in casa il feticcio di quella tartaruga in porcellana che amava regalare a chi incrociava nel suo cammino. Sono un esercito, queste tartarughe. 

Maurizio Costanzo a telecamere spente: niente mondanità, il tifo per la Roma e la mania delle tartarughe

Tra le tante, tra le ultime, tra le più emblematiche interviste (in termini di curiosità per l'umana specie e non certo in termini di storiografia da ricordare, teniamo a precisare, Dio ci fulmini), quella a Fedez del 2018: Costanzo di anni ne aveva già 80 e, con una lucidità già affaticata dall'età, provava ad aprirsi un varco tra i meandri aspri del suo ospite, snob o forse timido, incazzato col mondo o (senza forse) presuntuoso, ovvero perfettamente in linea con la natura mediatica di ogni rapper che si rispetti. Federico, all'epoca 29enne, di rispondere alle domande non aveva alcuna voglia, e magari nello studio di Costanzo c'era finito sotto ricatto dell'ufficio stampa, ma il conduttore sollevò ogni leva possibile per tirargli fuori qualche concettino che potesse dipingerne un ritratto sufficiente: l'ironia, la tenerezza, la captatio benevolentiae, poi la maieutica ed infine, dopo innumerevoli arpioni, tirò fuori il migliore, ovvero gli fece una domanda sull'infanzia. Come gatto che sinuoso s'insinua nelle case altrui. 

Attraverso di lui le storie, si diceva. Attraverso di lui le storie, la storia, i cambiamenti del costume e della società. Un fritto misto di "alto e basso", come usa dire tra gli "alti". Uomo di potere con la curiosità del vicino di casa. Da Platinette sul palco del Costanzo Show in un Paese ancora conservatore sui diritti LGBT a Gessica Notaro in una prima, enormemente femminista, intervista col volto ancora sfigurato dopo l'aggressione con l'acido subita dall'ex. Dal magistrato Giovanni Falcone al paparazzo Fabrizio Corona. La cultura e il circo ("La denuncia civile e la chiacchiera futile", per usare parole di Aldo Grasso). Dai colonnelli del cinema Vittorio Gassman, Alberto Sordi e Monica Vitti (protagonisti di una puntata storica) alla totale mancanza di talento dell'ex tronista di Uomini e Donne Costantino Vitagliano (per cui Costanzo scrisse il film Troppo Belli, che poi è tra i motivi per cui nell'incipit parlammo di "movente", ndr). Una carriera cominciata con la partecipazione alla sceneggiatura di "Un giorno particolare" di Ettore Scola e al testo di "Se Telefonando", poi l'adattamento al gusto dei tempi, la metamorfosi contestuale alla sensibilità mutevole dei tempi. Unica erede impeccabile, in questa lettura del presente e delle teste altrui, nonché in questo manovrare arpioni, proprio De Filippi con le sue interviste. 

E sì, dicono che è proprio l'esibizionismo televisivo suggerito dalle trasmissioni del duo Costanzo-De Filippi - quello che invoglia a metter in piazza qualsiasi vergogna e qualsiasi dolore - ad essere la genesi reale dell'assurda richiesta di un selfie al funerale (Grasso in particolare sostiene che proprio Costanzo sia l'inventore della «tv del dolore»). Dicono che è proprio l'esibizionismo di trama di quel famoso "Troppo Belli", e dei suoi show fratelli, ad essere il papà dell'horror vacui culturale del presente, quello che ci ha lasciati scivolare nel cortocircuito del senso del limite (ricorda sempre Grasso che il Costanzo Show era stata da definita da Giorgio Bocca la «fabbrica del consenso», ovvero la vera tv di regime). Ma il primo passo da fare è, forse, proprio prendere consapevolezza della distanza che c'è tra morbosità e curiosità. Ché curiosità non è, telecomando alla mano e sedere ben piantato sul divano, cercare affannati le lacrime sul volto della (sempre algida) vedova Maria al funerale.

"Il segreto, forse il rimedio, comunque la via di fuga, è guardare la gente che ti passa accanto per strada e vedere non persone ma storie che camminano, racconti che ti cercano, lampi con cui disperdere il buio di quando il buio ti sembra notte, di quando la notte si finge senza fondo, di quando la vita è solo un eccipiente del suo contrario, e non riesci a darle un sapore decente, un colore passabile"

Qui per leggere l'intero contributo citato di Sergio Claudio Perroni

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